Zootropolis 2 è un sequel che soddisfa le (altissime) aspettative
Il sequel di Zootropolis è un film sfaccettato, complesso, ma anche esilarante e visivamente appagante.
Non c’è dubbio che Zootropolis sia stato il film che più di altri ha definito (e salvato) l’ultimo decennio Disney/Pixar, riuscendo a conquistare un pubblico mondiale e a incassare tantissimo anche nei Paesi non occidentali, innanzitutto la Cina. Non deve quindi stupire se questo sequel non si limiti a buttare giù le basi per una possibile saga cinematografica (quindi anche per un terzo capitolo), ma anche per possibili serie tv da far uscire nell’attesa che arrivi il successivo episodio in sala. La cosa fondamentale da fare, quindi, non era tanto stupire con una narrazione originale e differente rispetto a quella del suo predecessore, quanto costruire un universo affollatissimo di animali differenti, che si muovono in nuove ambientazioni e con mezzi e infrastrutture sempre più fantasiose. In Zootropolis 2 ci sono tantissimi personaggi (oltre 70 con battute, un numero mai toccato prima) e scenari che vengono mostrati solamente con lo scopo di far crescere la curiosità nello spettatore e la sua voglia di vederne e saperne di più, come se ci trovassimo in una space opera degli anni Settanta. Un esempio emblematico è il Marsh Market, luogo del film in cui vivono animali “semi-acquatici”, concepito - a differenza degli altri ambienti, che, nella classica logica Disney, si rifanno comunque a quelli umani - come un mondo alieno, con dinamiche che hanno senso solo in quel contesto lì e non necessariamente in un contesto terrestre. Perfetto, quindi, per essere esplorato con degli spin-off.
Insomma, stavolta c’è la consapevolezza che l’unico protagonista di Zootropolis che valga la pena far evolvere, approfondire e caratterizzare meglio, sia la città stessa. In tal senso, l’universo di Zootropolis, anche in una logica industriale, è un universo autosufficiente, ampliabile potenzialmente all’infinito e adattabile ai più disparati formati (corti, serie, lungometraggi). Non è forse un caso che, ancora più che nel precedente capitolo, questo sequel forzi la mano sull’esclusione - nella logica del film - di alcune specie animali, che si rivelano utili solo all’alimentazione delle altre: gli insetti (nessuna “Bug’s Life” possibile, quindi) e i pesci (con tanto di slogan bene in vista che rovescia quello presente in Alla ricerca di Nemo: “I pesci sono cibo”). Nessun cross-over possibile con altri franchise: Zootropolis rivendica la propria autonomia, anche cinematografica, spingendo sulla componente comica e quindi occupando uno spazio oggi tristemente vuoto, quello appunto dei film comici che non si producono più. Ed è forse il film Disney più vicino alla concezione della Dreamworks nel modo in cui gioca con tantissimi elementi extratestuali e metacinematografici (non solo con riferimenti ad altre opere Disney, ma anche ai classici del cinema) in maniera molto più esplicita del solito.

La città diventa anche il soggetto principale della trama. Zootropolis 2 ripropone infatti la stessa idea del primo film, ovvero la progressiva decostruzione di uno stereotipo razzista, ma stavolta gli sceneggiatori utilizzano i rettili - assenti nel precedente - per raccontare non solo di una specie vittima di pregiudizi, ma di come la città stessa sia stata organizzata e costruita per cementificare quei pregiudizi attraverso la segregazione di un’intera comunità. La lince Milton Lynxley, che spera di espandere il quartiere di Tundratown attraverso la gentrificazione della città e l’annientamento di intere comunità zootopiche per i propri obiettivi speculativi, non è altro che una versione animalesca di Robert Moses, il funzionario americano che ridisegnò l’urbanistica di New York tra il 1930 e il 1970. Le classi meno abbienti, così come le minoranze etniche, rappresentavano in quel caso un ostacolo alla realizzazione dell’utopico progetto di perfetta armonia che aveva nella sua mente. Ma potremmo anche leggerla in un altro modo, ovvero che i membri dell’élite di Zootropolis pianificano di espandere il proprio territorio perseguitando alcuni animali indigeni e scacciandoli da un’area che vogliono rivendicare per sé. E lo fanno convincendo il resto della popolazione che questi loro vicini vadano sradicati perché pericolosi e che qualsiasi tentativo da parte delle vittime di questa ingiustizia di riconquistare la loro patria e la propria dignità debba essere considerato un attacco violento. Il film, quindi, si presta a differenti analisi, a seconda che ci si limiti a considerare la città semplicemente come tale o se invece la si consideri metafora di un pianeta intero (cosa logica, considerando le ambizioni commerciali del prodotto).
La “zoo-utopia” Disney, in ogni caso, non è indolore. Anch’essa si fonda sulla discriminazione, sulla falsificazione della storia (quella che cancella il contributo delle donne, ad esempio). Ma anche e soprattutto su dei compromessi che si devono accettare per farla funzionare: ci saranno sempre delle specie animali non senzienti da mangiare famelicamente, così come delle organizzazioni criminali a cui nessuno vuole effettivamente pestare i piedi. Il fatto che tutta questa complessità - narrativa, sociologica, morale - venga veicolata attraverso un’animazione al suo massimo splendore e una scrittura brillante e vivace rende Zootropolis 2 un film fondamentale per il cinema contemporaneo, sia da un punto di vista artistico che commerciale. Ma anche un’isola - anzi, una città - felice per tutti quegli animatori che, in un modo o nell’altro, attraverso le loro storie e la loro inventiva, si oppongono a dirigenti che, invece, sempre più spesso vanno in un’altra direzione.