Era chiaro già da Café Society che la collaborazione tra Woody Allen ed il direttore della fotografia Storaro avrebbe rappresentato una ennesima evoluzione (o quantomeno mutazione) del cinema di un regista che è paradigma vivente della teoria per cui gli autori fanno sempre lo stesso film ma declinato in maniera sempre diversa. E Wonder Wheel conferma quello stesso approccio alla luce ed ai colori per cui la fotografia si inserisce nel processo diegetico e contribuisce alla narrazione tanto quanto la sceneggiatura. Per questo la regia di Allen, ancora più che nel precedente lavoro, serve questo scopo con movimenti di macchina elaborati che raramente si erano visti nella pur sterminata filmografia del cineasta americano, confermando l'idea che questa nuova fase della sua carriera non può essere considerata ignorando il contributo di Storaro per la stessa ragione per cui ha poco senso parlare delle recenti opere di Malick senza nominare Lubezki.
E come in Café Society la luce cambiava improvvisamente nella medesima inquadratura, passando da quella degli abat-jour a quella delle candele, ad evidenziare uno snodo in un dialogo o a marcare visivamente la rivelazione di un segreto non ancora conosciuto, così anche in Wonder Wheel i colori cambiano drasticamente nella stessa sequenza a seconda che parli un personaggio (Kate Winslet, fotografia calda) o un altro (Juno Temple, fotografia fredda). Ma questo non vuol dire che Allen abbia semplicemente replicato quello che aveva realizzato con il precedente lavoro (che già rappresentava una cambio di passo decisivo nel suo modo di fare cinema) perché è diametralmente diverso il senso della messa in scena, non più sognante ma palesemente teatrale ed artificiosa. E come per la protagonista Ginny "non è realistico un giardino cinese nel mezzo di Staten Island", così non lo sono i colori carichi che riempiono le immagini di Wonder Wheel.
“Non è realistico un giardino cinese nel mezzo di Staten Island”
― Ginny Rannell (Kate Winslet)
La malinconia e la disillusione di Café Society, che parlava di sogni e di come questi si riverberano nella realtà, di come le speranze siano spesso destinate a rimanere tali, in Wonder Wheel evolvono in un pessimismo inesorabile. Allen abbandona le sfumature più dolci e ferocemente mostra le quotidiane amarezze di esistenze che rimarranno sempre tristi e sbiadite per quanto la ruota panoramica alle loro spalle cerchi di riempirle di colori e di festa. Al termine di questa pièce teatrale i personaggi si riveleranno per quello che sono e non più per la parte che cercavano di recitare: Belushi come un ubriacone manesco, la Winslet come una donna mediocre dalle mille vanità e Timberlake come lo stupido belloccio che cerca scappatelle estive spacciandosi per drammaturgo.
In questo sta la maturità sorprendente di un regista da sempre abituato a ritmi velocissimi e poco uso ai virtuosismi che, alla veneranda età di 82 anni, scopre un cinema diverso, composto da inquadrature studiatissime e scenografie elaborate, riuscendo a padroneggiarlo con naturalezza come se non avesse mai fatto altro nella sua carriera.
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