Thomas Vinterberg, con la sua prima serie televisiva, ridisegna la geopolitica delle migrazioni, a cominciare da uno spunto audace: cosa farebbero i suoi connazionali danesi se un giorno non potessero più vivere in Danimarca a causa del cambiamento climatico causato dall’uomo? Nella serie Famiglie come la nostra la catastrofe climatica (da Vinterberg affrontata in tempi non sospetti, con Le forze del destino del 2003) non è fantascienza come avveniva in altre opere danesi - QEDA di Max Kestner o Forever di Ulaa Salim - ma un esperimento mentale raccontato in sette avvincenti episodi che ribaltano il punto di vista sulle migrazioni contemporanee e sull’immaginario che le descrive: migranti in fuga dalla guerra o dal clima, stipati in navi o rinchiusi in campi profughi, arenati sulle spiagge del Mediterraneo, congelati nelle foreste o stremati durante lunghe traversate nel deserto. Stavolta, però, non si scappa dall’Africa ma dalla Danimarca, i Paesi di primo approdo non sono Italia e Grecia ma quelli dell’Europa orientale, e chi tenta di trarre profitto sulla pelle dei disperati non sono i miliziani libici ma mercenari russi.
Tutto il racconto prende il via dalla classica - e qui ironicamente raccontata - “tempestività danese”, sulla base della quale il governo decide di programmare l’inevitabile evacuazione dalla propria nazione, non da un momento all’altro a causa dell’improvviso aumento del livello dell’acqua, ma con mesi di preavviso per garantire una fuga “ordinata”. Questo permette a Vinterberg di rallentare il ritmo della narrazione rispetto ad altri racconti dello stesso genere e di mettere in scena con una rinfrescante morigeratezza questi scenari di apocalisse controllata, trasformandola anche in una questione burocratica e di inefficienze statali. Riconoscendo che l’innalzamento del livello del mare è ormai impossibile da fermare, il governo decide di agevolare la partenza di tutti i danesi attraverso due canali principali: chi ha un lavoro o una famiglia all’estero può ottenere il permesso di soggiorno, mentre tutti gli altri possono usufruire del programma finanziato dallo Stato e trasferirsi in quelle nazioni che vengono loro indicate, senza possibilità di scelta. Queste due opzioni creano ovviamente disparità e sono proprio queste che Vinterberg indaga, non tanto da un punto di vista sociale (si tratta sempre di famiglie benestanti o comunque della classe media) ma da un punto di vista emotivo, preferendo un approccio familiare alla distopia. Questo permette al regista di tornare sulla tematica di fondo di tutta la sua filmografia (da Festen a Riunione di famiglia, passando per Submarino e La Comune), ovvero il fragile equilibrio di qualsiasi famiglia, in cui le azioni di un singolo si riflettono su tutti gli altri componenti, in cui ogni decisione, anche se mossa dall’amore e dall’affetto, può provocare sofferenza e allontanamento. La serie, infatti, non riguarda solo la lotta per la sopravvivenza, ma la possibilità di proseguire una vita dignitosa con le persone che si amano, anche da “rifugiati”, sulla voglia di vivere e di stare insieme anche quando la terra ti viene letteralmente strappata via da sotto i piedi. Hold fast, imens dit Hjerte Endnu har Blod og Varme.
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