Intervista realizzata con il contributo di Riccardo Minnucci.

A Venezia, in occasione dell’81esima Mostra del Cinema, abbiamo avuto modo di intervistare Rodrigo Sorogoyen, uno dei registi fondamentali per capire il cinema europeo contemporaneo. Autore di opere magistrali come As Bestas e Madre, adesso è al timone de Los años nuevos, una serie tv (o un film in dieci episodi, come spesso ci si domanda, specialmente in queste ultime settimane) che racconta la “razón de amor” di una coppia lungo un decennio di convivenze e separazioni, con ogni episodio ambientato durante uno dei dieci capodanni che lo scandiscono. Una riflessione sul tempo della giovinezza, sul tempo dell’amore, sul tempo del cinema e su quello della televisione. Un’opera eccezionale che prosegue la sperimentazione del regista spagnolo sulla coppia come unità fondamentale delle proprie narrazioni.

Fin dai tempi di 8 citas e di El Iluso, proseguendo poi con Stockholm, la coppia è stato un elemento fondante del tuo cinema, la base sulla quale costruire ogni narrazione possibile, che si trattasse di commedie o di thriller. Da dove arriva questo tuo interesse?

Effettivamente è un tema enorme per me. È curioso, perché quando rifletto sulla mia traiettoria di regista e autore, sulla mia carriera e sulla mia filmografia, ho cominciato a fare cinema proprio con dei brevi film su coppie e amanti. Anzi, mi sorprende che tu abbia visto El Iluso (ride, ndr). Scrivevo sceneggiature principalmente su quello. Probabilmente all’epoca credevo che sarei diventato, o probabilmente volevo effettivamente diventare, un regista come Richard Linklater, oppure che mi sarei inserito nel solco delle commedie romantiche francesi e italiane. Poi in qualche modo ho realizzato Stockholm, che è sempre un film di coppia, ma è anche un thriller, e la vita mi ha condotto, insieme ad Isabel Peña, la sceneggiatrice, verso altri territori cinematografici, che sono quelli del polar, del thriller, che mi piacciono moltissimo. Quel film ci ha collocato in quel campo lì e adesso siamo entrambi principalmente conosciuti per quelle atmosfere e per quel tipo di lavori. Però la vita mi spinge anche a raccontare altro. Sai, fortunatamente non ho patito grandi traumi, non ho vissuto grandi tragedie, per cui la mia esperienza personale, quotidiana, è quella di coppia, in famiglia. Con Los años nuevos ho potuto nuovamente soddisfare la necessità di parlare di questo. Voglio continuare con altre cose, però una serie di 460 minuti, beh, è un progetto ambizioso per me, e sono stato contento di averlo fatto parlando di temi che mi toccano da vicino. 

Questi dieci episodi conducono poi naturalmente ad un eccezionale piano sequenza conclusivo di straordinario minimalismo, in cui non rimangono che i protagonisti, ormai completamente familiari allo spettatore, sufficienti a loro stessi, capaci di reggere tutto il finale sulle loro spalle. I privilegi, forse, della serialità?

È sicuramente così. Una serie, per la sua durata, è evidente che ti permette di approfondire di più i personaggi e soprattutto ti permette anche di avere tempi morti, di raccontare anche quello che non è strettamente necessario per la trama e per il suo svolgimento. Questo mi piace moltissimo poterlo fare in una serie. I film hanno altri vantaggi, però in questo caso c’era fin dall’inizio questa idea di parlare di due persone, di questi due esseri umani che formano una coppia, come dicevamo, però anche dei loro tantissimi satelliti, dei loro amici, dei loro genitori, delle loro comunità di riferimento. A poco a poco la serie si fa sempre più corale e successivamente si va restringendo. Mi piace molto che nell’ottavo episodio siano presenti tutti gli amici dei due protagonisti e che invece in quello successivo ce ne sia solo uno. E all’improvviso, nell’episodio 10, non ci sia più nessuno: solo loro due. E ci si restringe anche nello spazio, dal momento che la serie si conclude in una stanza d’hotel. Altro elemento fondamentale è quello del ritmo. Tieni conto del fatto che io, al cinema, lavoro sempre con la stessa squadra e questo mi aiuta molto. In questa serie invece non è stato possibile. Ho lavorato con persone nuove, ad eccezione di Alberto del Campo, il montatore, che è un gigante, e con cui ho lavorato ad As bestas, El reino, Antidisturbios, Madre, e credo che questo si noti. Credo che il ritmo della serie funzioni anche grazie a lui. Quando ho visto la prima metà della serie in sala a Venezia, sono subito andato da lui per dirgli che è un genio. Succede con qualunque film o serie a cui lavoriamo insieme.

Il sesso è un tema fondamentale nella serie. Oggi, che spesso ci si domanda quale sia il modo migliore per mettere in scena questi momenti di intimità, emancipandosi dal machismo ed evitando di far emergere il cosiddetto male gaze, che domande ti sei posto, da regista?

Molte domande. Davvero molte domande. È un tema molto delicato. È normale ed è anche positivo il fatto che lo sia diventato. Lo abbiamo trattato con molta attenzione, con molto rispetto, dialogando molto tra sceneggiatrici, attori e registi. Nella serie ci sono cinque scene di sesso. Io ne ho girate due ma ovviamente ero lì anche per le altre e devo dire che, alla fine, è stata una esperienza molto bella, perché nel nostro team siamo tutti esseri umani sensibili ed empatici. La cosa essenziale delle scene di sesso è che sono funzionali al racconto della relazione. Sono fondamentali non solo per la delicatezza del tema, per il livello di intimità, ma perché stai raccontando a che punto è quella coppia in quel momento della narrazione, come si sentono i protagonisti. Puoi raccontare molto attraverso il modo in cui due persone si toccano, si guardano, si baciano. E, di fatto, sono lì per questo. Per questo motivo le filmo. E poi, per me, è una questione di coerenza. Se decido di raccontare cosa mangiano a cena, devo raccontare anche come scopano… perdona la volgarità (ride, ndr). È coerenza. Stiamo parlando di una serie in cui ad ogni episodio si compie un salto temporale molto ampio, di 364 giorni, passando da un capodanno al successivo, ma il resto non lo salti: in quelle ore che decidi di raccontare, metti in scena come dormono, come scopano, come mangiano. Questo non bisognava ometterlo. Era un rischio, però credo che abbia funzionato. 

Hai menzionato il gioco di specchi con altre coppie che alimenta confronti, supposizioni, gelosie, rispetto a quella principale che seguiamo lungo i dieci episodi. In che modo hai messo a punto questo stratagemma narrativo?

Nella maniera più interessante possibile, spero. Quello che sapevamo era che avremmo dedicato molto tempo e molto spazio ad una coppia, la coppia di Óscar e Ana, ma che non volevamo far credere o far pensare allo spettatore che l’amore fosse solo quello, che l’unico modello di coppia fosse quello lì. Assolutamente no. Ci sono tante coppie quanti esseri umani ci sono al mondo, ci sono molti modi di amarsi e di volersi bene e di essere e stare in coppia. Per cui la soluzione che abbiamo trovato è stata quella di introdurre più coppie che in qualche modo riflettessero quella principale, come un prisma. E di fatto, incontriamo i loro amici, che sono coppie, i loro genitori, che sono coppie o che sono state coppie. E poi, in più, ci piaceva molto giocare sul campo della speculazione e dell’immaginazione … è una cosa che faccio io con la mia compagna. Se ci capita di osservare due fidanzati, ci piace fantasticare sulla loro vita di coppia, speculare su di loro… è un gioco, però mi sembra divertente, sia nella vita reale che nella serie. Permettersi di parlare di altri amori, altre coppie, credo ti aiuti anche a non credere che la tua sia l’unica maniera giusta di vivere una relazione, perché molte volte i problemi vengono da lì, nel credere che qualcosa possa esistere solo in un unico modo e in nessun altro. Insisto, questa mentalità aperta e questa curiosità serve nella vita reale, così come al cinema e nelle serie tv. È una cosa che mi sembra necessaria.