Massimo Sisti, il protagonista del nuovo film dei fratelli D’Innocenzo, è un dentista stimato e professionale. Ha una bella famiglia (moglie e due figlie che ama profondamente), una villa molto grande e immersa nel silenzio. Un giorno, però, scende nel suo grande scantinato per recuperare una lampadina e scopre l’assurdo.
Come già nel loro esordio (La terra dell’abbastanza) e nella loro opera seconda che li ha definitivamente consacrati (Favolacce), Damiano e Fabio D’Innocenzo contraddicono costantemente con le immagini e con la messa in scena ciò che viene raccontato dalla sceneggiatura dei loro film e ciò che viene suggerito dagli atteggiamenti e dai modi di fare dei personaggi. I loro protagonisti sono sempre incapaci di rendersi conto dello squallore in cui vivono e sfoggiano un tipo di agiatezza che appare immediatamente fasulla e menzognera. Ancora una volta è la casa scelta per il film a raccontare tutto ciò che c’è da sapere della persona che la abita: una villa che da fuori sembra il cadavere di un acquapark abbandonato, bianco e celeste, ma che dentro è tutta rossa e arredata con colori caldissimi come quella di Sussurri e Grida di Bergman.
Il cinema dei due gemelli - e America Latina non fa eccezione - vive di dualismi: l’interno e l’esterno della casa che si abita, il sopra e il sotto, l’apparenza che si vuole dare e ciò che si prova nel profondo, il proprio corpo e l’immagine riflessa dello stesso. Un’opera in dialogo e contrapposizione con quella precedente (se in Favolacce c’era una piscina che veniva accoltellata, in America Latina c’è una vasca a forma di lama di coltello). I due cineasti romani lavorano tantissimo sul character design come si fa tradizionalmente per i film d’animazione: lo testimonia ancora una volta il taglio di capelli impietoso sfoggiato da Elio Germano, qui completamente rasato, in grado da solo di comunicarci qualcosa sul personaggio ancora prima che questo possa aprire bocca. Un corpo in totale contrasto con quelli candidi e aggraziati di sua moglie e delle sue figlie, vestite come le ragazze di Peter Weir (Il giardino delle vergini suicide) e giocose come le collegiali di Sofia Coppola (L’Inganno).
A differenza delle villette a schiera di Favolacce, in cui tutte le famiglie della zona si riunivano per barbecue, piccole feste e pranzi in giardino, qui la dislocazione è totale, le possibilità di convivialità ridotte all’osso: l’America Latina del titolo è un luogo immaginario, antinomia tra ciò vorrebbe essere (America) e la palude, solo parzialmente bonificata, che è davvero (Latina). Stavolta però il complesso equilibrio che i D’Innocenzo avevano raggiunto nei precedenti due film, in cui i fatti di cronaca nera perturbavano un contesto tra allucinazione e sogno, rimuovendo forzatamente ogni possibilità di lirismo, funziona meno. Il loro terzo lungometraggio diventa progressivamente una grande allegoria, abbandona consapevolmente i risvolti di genere (rifiutando il thriller) e si fa metafora di un disagio, senza però avere sempre la forza di sostenere le proprie ambizioni con una narrazione sofisticata almeno quanto la sua messa in scena.
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