Per il suo primo film di finzione, il leggendario cineasta Frederick Wiseman si affida alle parole di Sofia Tolstoj e alla sua corrispondenza epistolare. Quella di una donna ferita e insoddisfatta che ha sposato un uomo col doppio dei suoi anni quando lei ne aveva solo diciotto e lui era già uno dei romanzieri più affermati in Russia. Una donna che, nonostante la sua giovinezza, voleva trovare una propria dimensione personale. Un Couple nasce come conseguenza dell’isolamento imposto dalla pandemia, che ha di fatto impedito ad uno dei più preziosi registi di non-fiction della storia del cinema di mettere insieme un altro dei suoi colossali film realizzati in luoghi pubblici affollati. Nonostante questa differenza sostanziale, la nuova opera di Wiseman è mossa dalla stessa esigenza di osservazione di sempre, anche se stavolta l’oggetto dello sguardo non è una comunità di persone che lavorano insieme (come spesso avviene nel suo cinema) ma una singola attrice colta nell’atto della performance (o della sua prova reiterata). Tutto il film, infatti, ruota attorno a Nathalie Boutefeu che declama le lettere inviate da Sofia Tolstoj al marito nel corso della loro relazione. Wiseman la osserva con una distanza tipica del documentario e applica fino in fondo il suo stile, fatto di inquadrature brevi realizzate da una distanza tale da poter intuire l’insieme della scena e allo stesso tempo distinguere i dettagli più piccoli. Da subito il film appare come suo. La donna, unica protagonista della scena, viene filmata come una delle tante lavoratrici e funzionarie che popolano i suoi studi di osservazione sulle istituzioni pubbliche americane, con il medesimo interesse e la medesima discrezione che suggerisce invisibilità ma nasconde invece una chiarissima idea di ciò che si vuole far vedere (quindi comunicare) allo spettatore: un cinema anti-spettacolare che si meraviglia di fronte allo «splendore del vero». Lo sguardo di Wiseman, anche al di fuori del documentario, rimane l’estrema espressione di quello stupore che rappresenta l’atteggiamento «aurorale» dell’uomo nei confronti del mondo. E non è un caso se il regista immagini Sofia che vive vicino ad una scogliera, dalla quale può contemplare malinconicamente le onde che si infrangono, anche se Yasnaya Polnaya, la tenuta di Tolstoj dove la moglie realmente ha vissuto, si trovava invece a 120 miglia da Mosca, lontana da qualsiasi sbocco sul mare.
Sofia è da sola lassù sullo schermo, anche se il titolo invita sempre a immaginare l’altra metà di tutto questo, l’uomo che la cinepresa non riprende mai, che si nega allo sguardo. È “il fuori” dell’inquadratura che non viene mai del tutto escluso, che esiste e si annuncia (il fruscio del vento sull’erba, il rumore della natura), arricchisce e smargina “il dentro”. Come avviene nel cinema di Straub e Huillet, il testo iniziale di riferimento lascia subito spazio ad un altro testo, che è quello dato dal cinema, fatto di inquadrature, découpage e, ovviamente, recitazione. Una recitazione classica ma non scolpita, in cui lunghi monologhi vengono declamati guardando obliquamente rispetto alla cinepresa, verso un fuori campo che, così, elegge o rifiuta, dialetticamente, lo sguardo dello spettatore come privilegiato interlocutore. Ma, a differenza dei due registi francesi, qui Wiseman rifiuta la fissità dell’immagine e della sua attrice: segue Sofia mentre si muove e cammina, calpestando un terreno che cambia con le sue parole e i suoi passi. Ed è questo che separa A Couple anche da altri esperimenti similari compiuti dal regista in passato, come Seraphita’s Diary del 1982 e The Last Letter del 2002, dove lo sfondo non diventava mai ambiente vivido e pulsante, controcampo indispensabile della protagonista, in grado di dialogare con lei, ma rimaneva solo un rigido palcoscenico teatrale. Le riprese del giardino in primavera sono invece, per dirla con le parole dello stesso Wiseman, la messa in scena della “lotta darwiniana per l’esistenza”. Una distesa di colori visivamente allettante, ma che sotto di essa, di notte, nasconde il mondo feroce, vizioso e crudele degli insetti. Un dualismo che è anche quello della relazione che viene raccontata, sempre in tensione tra l’indifferenza e il coinvolgimento emotivo, tra la stanchezza e la passione, tra la stasi e il brulichio. Allo stesso modo, il film cerca di coniugare la densità, il valore e l’immutabilità delle lettere di Sofia Bers Tolstoj con l’incontrollabilità, a dispetto di qualunque rigore, dell’adattamento visivo. Molto di quello che viene detto è preso dai diari di Sofia e dalla sua autobiografia, ma in alcuni momenti Boutefeu (che ha co-scritto la sceneggiatura) cita frammenti delle lettere di Tolstoj, lasciando il posto a una strana forma di ventriloquio. Decisivo nel cinema di Wiseman, che si parli di documentari o fiction, è tutto quello che si vede e si sente: ogni centimetro quadrato del fotogramma e ogni suono catturato dal microfono sollecitano lo spettatore a liberarsi dalla posizione subalterna rispetto allo schermo e a mettersi nelle condizioni ideali per esercitare, senza alcun ostacolo, il proprio sguardo.
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