Nel suo “Ritratto di famiglia con tempesta” del 2016, Hirokazu Kore’eda costruiva un intero film attorno ad una sola immagine conclusiva, ovvero quella anticipata dal titolo. Un momento apparentemente insignificante se preso singolarmente, ma che assumeva una carica emotiva inedita grazie al lavoro svolto da un regista che voleva consentirci di vedere quell’attimo di vita esattamente come lo vedeva lui. Anche nel suo nuovo Un affare di famiglia si arriverà ad un finale che, se dovessimo giudicare per logica comune e buonsenso, ci porterebbe a condannare senza appello i protagonisti della storia, ma che invece ci appare ingiusto (nonostante non ci sia nulla di davvero sbagliato in quello che avviene) alla luce di quello che Kore’eda ci ha mostrato nel corso del film, spingendoci a provare sentimenti verso i suoi personaggi che sarebbe stato impossibile esprimere senza aver visto ciò che è venuto prima di quella scena.
Questa famiglia di giapponesi, che vive ammassata in una piccola casa bassa schiacciata da palazzi più alti, ruba per vivere e deciderà di rapire una bambina per “accudirla” all’insaputa dei suoi veri genitori, come se questo fosse un gesto assolutamente accettabile e razionale. La sofisticazione di questo film sta quindi nel voler far credere allo spettatore che effettivamente questo loro modo di vivere sia quello migliore possibile e che tutto quello che nella nostra vita consideriamo importante ed immutabile (i nostri nomi, i nostri rapporti di parentela) in realtà non lo sia per nulla. In una storia in cui ogni azione compiuta dai personaggi sembra appartenere ad un mondo diverso dal nostro, per la leggerezza con cui questi affrontano i problemi più gravi e per la serenità con cui agiscono nella illegalità meno tollerabile, emergono con forza le divisioni sociali, descritte dal film attraverso un socio-realismo che ricorda quello di De Sica o Ken Loach e che squarcia il velo di fiabesca irrealtà che avvolge la vicenda. Non c’è quindi l’abbraccio interclassista di Alfonso Cuarón, ma solo quello intraclassista degli ultimi con gli ultimi, che si fanno forza a vicenda anche quando dall’alto cercano di dividerli (e non di aiutarli, come invece mostrerebbe un film idealista come appunto Roma).
Il fotogramma nitidissimo di cui si serve Kore’eda, all’interno del quale la composizione dell’immagine segue regole precise e mai casuali, ordina con il rigore formale una narrazione che è invece fumosa e fatta di continui cambi di prospettiva: la numerosa famiglia del film vive insieme in una casa piccolissima nella quale però non ci sarà mai disordine o rumore, e persino le fughe dopo un furto ci suggeriranno calma e compostezza anziché ansia e preoccupazione. L’apparente genuinità dei protagonisti, che all’inizio sembreranno essere così trasparenti da essere facilmente leggibili senza possibilità di errore, verrà messa in discussione dalle immagini prima ancora che dalla sceneggiatura. Sarà la fotografia a scavare sempre più i volti dei personaggi, delineando una profondità ed una complessità delle cose che chi guarda non può essere in grado di capire davvero prima del finale. E sarà proprio la regia a mostrarci volti che ancora non conosciamo attraverso complessi giochi di immagini speculari, sempre anticipando ciò che poi sarà la storia a chiarire definitivamente. Come in un film fotografato da Vittorio Storaro, i cambi di luce ci indicano mutamenti emotivi dei personaggi in scena (per antitesi in alcuni momenti sarà l’affievolirsi della luce ad evidenziare un cambiamento felice e positivo nel loro rapporto).
Come spesso avviene nel cinema di Kore’eda, la manipolazione del tempo cinematografico, la sua accelerazione o la sua estrema dilatazione, serve al cineasta giapponese per indicare a chi guarda qual è la relazione che i personaggi hanno con il tempo della loro vita. Se in Ritratto di famiglia con tempesta ogni scena sembrava durare meno del dovuto, perché era il padre del film a voler rimanere più tempo con il proprio figlio rispetto a quello che invece gli veniva concesso, così in Little Sister si narrava di un anno della giovinezza di due sorelle mostrandolo come se questo racchiudesse una esistenza intera, con tutti i momenti cardine di cui questa si caratterizza. Anche in Un affare di famiglia diversi mesi saranno racchiusi in ellissi temporali rapidissime, momenti di intimità sembreranno interrompersi prima del previsto ed invece lunghissime riprese di volti che piangono sospenderanno il tempo fino quasi ad immobilizzarlo.
Proprio come in Father and Son, il regista giapponese sembra volerci dire che i genitori biologici non sono per forza migliori di quelli che invece il caso decide di affidarci (per adozione o per rapimento non fa differenza) ed usa la dolcezza come chiave di declinazione di una storia che passa anche per momenti squallidi nei quali si è costretti alle nefandezze più basse. Ogni colpo di scena che razionalmente vorrebbe svelare l’egoismo e la piccolezza di questi protagonisti non sembrerà minimamente scalfire la tenerezza che invece li rende riconoscibili agli occhi del pubblico (quella che il cineasta giapponese vuole far emergere guardando le cose da una prospettiva diversa da quella della morale prevalente).
La forza del cinema di Kore’eda sta quindi nella scelta di non costringere mai lo spettatore a comprendere i personaggi che osserva (che generalmente compiono le scelte più sbagliate anche se mossi dai sentimenti più cristallini) ma di lasciare invece a chi guarda la libertà di aderire gradualmente e naturalmente al loro punto di vista. Un affare di famiglia non mette in discussione la legge ma ci mostra come sia difficile capire fino in fondo qualcosa se ci si limita solamente all’asettica analisi dei fatti. E così Kore’eda sceglie di sorvolare velocemente proprio sugli eventi più importanti (il rapimento della bambina si svolgerà in pochi secondi, ci sarà un licenziamento che non ci verrà mostrato e fuori campo avverranno un incidente grave e la morte di un personaggio) per soffermarsi invece sui momenti più ordinari e meno clamorosi di una famiglia “sbagliata” e condannabile ma che lo stesso pare essere un modello per tutte le altre.
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