Matematico di formazione, con i suoi film, da più di vent’anni, Sergei Loznitsa sviluppa sistemi complessi di analisi e controllo dell’immagine in movimento sui due assi della manipolazione/combinazione delle immagini di archivio e della sonorizzazione quasi completamente ex novo ed ex-post. Con la sua quinta incursione nel cinema di finzione, Two Prosecutors, il cineasta ucraino racconta la storia di un giovane procuratore (con il volto eccezionale di Aleksandr Kuznetsov) che sembra non aver mai dormito in vita sua, appena laureato e subito (inspiegabilmente) promosso a un ruolo generalmente riservato a uomini più anziani e, quindi, si suppone, più preparati. O, almeno, che hanno nel frattempo imparato a stare al mondo e ad adeguarsi alle logiche del potere a cui devono rispondere. Un ragazzo mosso da idealismo e fede salda nella giustizia, che si intestardisce nel volersi fare carico del caso di un detenuto politico torturato nella prigione nella quale è rinchiuso. Si sforza di incontrarlo e, constatata la veridicità delle accuse, decide di portare la faccenda all’attenzione delle autorità superiori, fino a raggiungere la scrivania dell’impegnatissimo Procuratore Generale a Mosca.
Siamo nel 1938, nel pieno delle purghe staliniane. Dato il periodo storico, il film diventa quasi un seguito indiretto del precedente documentario The Trial, basato sulle straordinarie immagini d’archivio che documentavano i processi farsa organizzati da Stalin e messi in scena come dei veri e propri spettacoli. Kornev, questo il nome del procuratore, anch’esso kafkiano come la storia di cui è protagonista, riconosce e cerca di contrastare la corruzione dei funzionari locali che lo circondano, commettendo però un grave errore: quello di considerare ciò che avviene nella sua regione un’anomalia piuttosto che un indizio sullo stato di saluto dell’intero sistema in cui si trova ad agire. Loznitsa trasforma l’inferno totalitario in un singolare teatro dell’assurdo, adattando un romanzo di Gueorgui Demidov con quell’ironia che lo contraddistingue e che, in alcuni casi, è emersa anche nei suoi lavori documentaristici (basti pensare a Mr. Landsbergis, in cui veniva dissacrato l’ideale diffuso in Occidente di Gorbachev come l’illuminato e democratico “ingegnere della Perestrojka”, delineando invece il profilo di un uomo completamente organico alla burocrazia sovietica).

Quello che si trova ad affrontare il giovane procuratore Kornev è un percorso ad ostacoli nella burocrazia di un impero leviatanico che si ostina a raccontarsi come un’utopia democratica. Il film lo organizza in una serie di estenuanti attese in luoghi chiusi (celle, anticamere degli uffici centrali, vagoni del treno) e in lunghe sequenze dialogate, tutte collegate da innumerevoli porte da attraversare, aprire e richiudere, nonché da infinite scale da salire e scendere. Lavorando esclusivamente con la camera fissa, Loznitsa fa man mano emergere un singolare trambusto alla Tati, in cui improvvise schegge di umorismo trafiggono l’apparente rigidità formale del film, perfettamente inserito in quel grande congegno riflessivo costruito dal regista per raccontare sintomi, principi e concause del collasso sovietico. Collasso che però, data l’impostazione quasi favolistica di questo suo nuovo film, diventa un monito molto più astratto e meno strettamente legato al tempo in cui si svolge la storia. D’altronde, riferendosi ai suoi documentari, Loznitsa ha sempre dichiarato di voler “rappresentare il passato come se fosse il presente”, rendendolo talmente vivo da dare l’impressione di poterlo toccare con mano. Ed è questo il caso anche di Two Prosecutors. Non solo il racconto di un determinato periodo storico, ma anche e soprattutto una “morality tale” che ci invita a considerare ogni piccola ingiustizia il campanello d’allarme di un sistema che ha ormai smesso di funzionare.
Rifacendosi al più impolitico, al più enigmatico, al più inafferrabile degli scrittori novecenteschi, Kafka appunto, che scriveva che «le catene dell'umanità torturata sono fatte di carta protocollo», Loznitsa fa emergere il suo antiautoritarismo libertario in una chiave tutta e soltanto esistenziale. Anzi, è proprio il tono onirico e misterioso del suo film che gli consente di cogliere il cuore ultimo della questione: la progressiva astrazione di un potere simile a un Moloch che non ha un volto e che per questo appare assurdo, ingiusto, diabolico. Assumendo il punto di vista del cittadino comune moderno, il regista e il pubblico - a differenza del povero protagonista - si riconoscono preda di un apparato burocratico impenetrabile, il cui funzionamento è controllato da istanze che restano indefinite anche per i suoi stessi organi esecutivi e, a maggior ragione, per coloro che ne sono manipolati.
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