A distanza di due decenni dalla vittoria della Palma d’oro con La stanza del figlio, Nanni Moretti torna a Cannes con il suo nuovo film, il primo tratto da un soggetto non originale (il libro omonimo di Eshkhol Nevo). Un film doloroso e radicale, che non concede nulla né ai personaggi né allo spettatore, ridimensionando la presenza in scena di Moretti e rinunciando a quasi tutti quegli elementi che il pubblico, con il tempo, ha cominciato ad associare al suo cinema. Nevo, voce di spicco della letteratura israeliana contemporanea (che ha trovato consacrazione sulla scena internazionale con romanzi come La simmetria dei desideri e Nostalgia), aveva raccontato con il suo libro tre storie ambientate in uno stesso luogo (un condominio borghese) che incarnavano le tre istanze intrapsichiche freudiane di Es, Io e Super-Io. Un libro complesso e largamente metaforico, profondamente legato al passato e al presente del popolo israeliano.
La trasposizione cinematografica di Nanni Moretti trasla l’azione da Tel Aviv a Roma (ma fa pochissimo per ancorare il film alla contemporaneità italiana, preferendo invece un contesto più abbozzato, genericamente europeo) e mescola le vicende delle varie famiglie in un unico flusso narrativo, elidendo dunque quella sostanziale separazione dei tre piani in tre capitoli e allungando la propria narrazione in un arco temporale di circa dieci anni. Se fino a questo momento Moretti aveva lavorato principalmente sulla breve unità della cronaca, su di un tempo contingentato, qui sceglie una narrazione almodóvariana, a cui è facile associare l’incidente automobilistico che apre Tre Piani come in Tutto su mia madre, e il tono sfacciatamente melodrammatico, da telenovela, del racconto. Le piccole e grandi tragedie che animano il film, però, non sembrano avere risonanza al di fuori delle singole scene che le contengono. La regia prende semplicemente atto degli avvenimenti, senza commenti a margine, e la sceneggiatura non usa l’accumulazione del dramma per costruire la tensione (come invece farebbe Haneke).
Non c’è spazio nemmeno per una risata, né tantomeno per una commozione che sia propedeutica ad una catarsi o ad una liberazione finale. L’operazione di sottrazione è totale, nella sceneggiatura, nella regia e nella recitazione: non c’è assolutamente tempo per l’approfondimento psicologico dei personaggi, le svolte narrative sono brutali nella loro nettezza, spesso forzate e poco credibili, e il racconto avanza inesorabile come una frana. Dopo aver frettolosamente imbastito le sottotrame nella prima metà del film, Moretti si concede maggiormente alle aspettative dello spettatore, approfondendo i due racconti con Margherita Buy (l’attrice a cui è affidato il compito di veicolare la trasformazione del suo cinema, come Penélope Cruz per Almodóvar) e Alba Rohrwacher (le cui sequenze recuperano la soggettività narrativa di Mia Madre, adottando e poi negando il punto di vista di una giovane madre angosciata). Le due storie continuano su binari separati e il montaggio diventa sempre più rapido nell’alternarle. Il pannello “Cinque anni dopo” appare due volte nel corso del film, ma ogni transizione a nero è impietosa nel restituire, ad ogni successiva riemersione dell’immagine, dei personaggi sempre più soli e disperati.
In questa asfissiante descrizione di paternità tossica, appare ancora più emblematica la decisione di Moretti di non rendersi riconoscibile nelle soluzioni di regia, negli scambi tra i personaggi, nel modo in cui sono arredati gli ambienti, nella selezione musicale. Di rinunciare a un protagonismo che da sempre è dichiarazione estetica, narrativa e politica (come recentemente dimostrato anche nel documentario Santiago, Italia). I personaggi femminili si oppongono all’ostinazione maschile, osteggiano la loro convinzione di essere sempre nel giusto (il giudice integerrimo di Moretti, il padre ossessionato di Scamarcio e quello assente di Giannini, inamovibile nel proprio odio verso suo fratello). Sono loro ad inserire i punti di domanda alla fine delle affermazioni perentorie dei mariti, a proporre una prospettiva diversa sulle cose che accadono. E sono loro, quindi, le protagoniste del doppio movimento che il film compie verso la fine: un movimento in avanti, verso l’esterno (la milonga clandestina in strada) e verso il futuro.
Man mano che i personaggi femminili, le loro figlie e i loro figli, prendono consapevolezza di sé e rivendicano spazio sempre maggiore nel film, la regia di Moretti, fino a quel momento nemica di qualsiasi ridondanza ed ellittica fino all’incomprensibilità, comincia a respirare, rinuncia alla brevità delle scene e riprende possesso del suo tempo, indugiando su momenti non immediatamente determinanti per lo sviluppo della narrazione e soffermandosi su azioni ripetute (il saluto con la mano di una ragazza che finalmente si separa dai suoi genitori per andare in Spagna, prima insicuro e poi successivamente vigoroso e convinto).
È un film difficoltoso e spiazzante, quello di Moretti, di un minimalismo programmatico. Ma proprio nella sua durezza diventano significative le sporadiche emergenze di umanità, i gesti di pietà e solidarietà che si manifestano in un ambiente che invece sembrava reprimerli. La fiducia è tutta riposta nelle nuove generazioni, nei figli che prendono fiducia nelle loro capacità, che iniziano a vivere le prime esperienze davvero rilevanti della loro esistenza e pretendono di sporgersi dal loro condominio e aprirsi così verso l’esterno. Come ne La stanza del figlio, l’amore dei propri genitori è un peso. Anche in questo caso, però, c’è un luogo a cui tendere per liberarsi dal fardello: non è più la grotta sottomarina in cui Andrea decideva fatalmente di immergersi, ma più banalmente una casa della nonna, un Paese estero, una fattoria in campagna.
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