Stavolta il colpo di scena del suo film Shyamalan lo posiziona all’inizio: un uomo accompagna la figlia allo show di una cantante e resta sorpreso dalla massiccia presenza di polizia. Dopo poco, scopre che gli agenti sono arrivati lì perché informati del fatto che nello stadio è presente un pericoloso serial killer. Capiamo anche noi, nel giro di qualche minuto, che quel serial killer è lui, il protagonista del film. Da lì comincia un gioco del gatto col topo sapientemente orchestrato sul filo dell’ironia, dal momento che il nostro “papà modello” non ha alcuna intenzione di farsi catturare per un motivo fondamentale: che non vuole rovinare la serata alla figlia, fan sfegatata della pop idol che si sta esibendo sul palco (Saleka, figlia dello stesso Shyamalan), e soprattutto non vuole correre il rischio di essere allontanato da lei. Su questa scissione tra assassino psicopatico e premuroso padre di famiglia gioca tutto il film ed è la sua vera grande intuizione: mettere insieme famiglia e musica pop e considerarli come due ambienti simili, accomunati dalle stesse logiche. La famiglia, infatti, è un esempio perfetto di forma di organizzazione sociale intrappolata, come la musica pop, nelle ripetizioni e negli stereotipi - in un convenzionale psittacismo - e che con il pop condivide una irrisolvibile ambivalenza rispetto alla possibilità di emancipazione, essendo potenzialmente sia un luogo di recupero e sollievo, sia un luogo di costrizione e di angoscia. Entrambi sono, allo stesso tempo, un rifugio dal capitalismo e un suo elemento fondante. Rinunciare completamente al contesto famigliare, o comunque al proprio ambiente domestico, vorrebbe dire rendersi ancora più disponibili alla logica del capitale, finire per essere ancora più esposti e vulnerabili. Ma è proprio facendo leva su questo, che il capitale cerca continuamente di rendere la famiglia uno dei principali soggetti del proprio meccanismo consumistico. Allo stesso tempo la musica è completamente ludica perché “resta al margine dell’esistenza utilitaristica e prosaica” (scriveva Vladimir Jankélévitch), ma oggi come non mai è anche prodotto da vendere e acquistare.
La musica pop, però, può esprimere in tre minuti molto più di quello che un trattato politico può dire in trecento pagine, che è solo un altro modo per dire ciò che Eshun aveva già ribadito: “Non hai bisogno di Heidegger, perché George Clinton è già un teorico sufficientemente bravo” (Eshun, 1999). Ed è per questo che sarebbe utile pensare ad essa non tanto nella sua capacità di maligna affabulazione, ma nelle sue potenzialità liberatorie, nel momento in cui i soggetti più inclini a riprodurre il realismo capitalista (studios e case discografiche) si ritrovano - loro malgrado - in una relazione instabile con coloro che invece desiderano demolire quello status quo (artisti e pubblico). La musica di Lady Raven, ma soprattutto il fandom che questa è riuscita a cementare attorno alle istanze veicolate attraverso le sue canzoni, diventa così lo strumento principale per la risoluzione di questo thriller, ma anche il grimaldello che permette di scardinare la gabbia - una delle tante del film - di un contesto famigliare tossico. Il testimone passa lentamente alle nuove generazioni, cresciute con quel tipo di musica e con quel tipo di modelli di riferimento, dimostrando una fiducia assolutamente non scontata rispetto ad un tipo di proposta (non solo musicale, ma anche televisiva-cinematografica, fondata su di un’immagine ben specifica e meticolosamente assemblata) spesso considerata frivola o persino dannosa.
Trap è, ovviamente, come sempre nel cinema di Shyamalan, un film che fa dello sguardo il suo meccanismo principale. È infatti solo sul proprio sguardo che il serial killer, nella prima metà, può fare affidamento per immaginare e pianificare una possibile strategia di fuga, studiare chi c’è attorno a lui e valutare la convenienza delle sue prossime mosse. Ma anche in questo caso, lentamente, il punto di vista diventa un altro, nel momento in cui la storia esce dallo stadio per rinchiudersi in “trappole” sempre più piccole, sempre più claustrofobiche, che sono sia fisiche, reali, che digitali: le immagini delle telecamere a circuito chiuso o quelle dei video registrati sugli smartphone. Molto, in questo senso, si basa sulla possibilità di aprire quelle strutture chiuse, di permettere a platee sempre più vaste di penetrare in quelle immagini, di farle proprie e, possibilmente, di usarle per qualche scopo positivo, che abbia una tangibile conseguenza nella realtà. In questo caso l’atto di “osservare”, da sempre così centrale per Shyamalan, diventa uno strumento di azione, di organizzazione collettiva. Se in passato lo sguardo era una questione personale, privata, adesso in Trap diventa una faccenda plurale e non è un caso che la sfida del serial killer protagonista sia quella di un uomo solo contro una moltitudine. È in questo sistema chiusissimo del suo cinema che Shyamalan ancora una volta conduce lo spettatore. Pop, anch’esso, nella regolarità della cadenza, nell’illusione della simmetria, del “circuito” che ci rende sensibile la forma e permette che la riesposizione di uno stesso tema possa avere una luce e un senso nuovi, se non altro in forza del momento ulteriore nel quale tale riapparizione si produce.
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