The Square di Ruben Östlund è solo tangenzialmente una commedia sul mondo dell’arte contemporanea ed è in realtà un prosieguo del suo discorso sullo sgretolamento della virilità cominciato con Forza Maggiore. Quindi non cerca di capire cosa sia “L’artista” per la società, come facevano Gastón Duprat & Mariano Cohn nel loro lavoro del 2008, che poneva la questione se ad essere celebrato dovesse essere chi crea un quadro (in quel caso un vecchio affetto da demenza) o chi invece lo espone ad una comunità di persone in grado di conferirgli lo “status” di opera d’arte. Ma in qualche modo riprende il valore metacinematografico di quella idea: è arte un uomo seminudo che molesta delle persone ignare emulando i movimenti e i versi di una scimmia o è arte l’inquadratura che il regista fa di quell’uomo per inserirla all’interno di un lungometraggio per il cinema?

I movimenti artistici del ‘900 hanno reso chiaro che un’opera d'arte può essere riconosciuta come tale solo in base alle esperienze di chi guarda e alle sue conoscenze pregresse: se le Brillo Boxes di Andy Warhol per alcuni possono essere identificate come oggetti parodistici della società dei consumi, per altri l’analisi visiva si ferma all’identificazione di quelle opere nell’oggetto reale che rappresentano, ovvero la comune scatola di cartone di Brillo come si trovava nei supermercati. Allo stesso modo i drammi sociali della contemporaneità non possono essere compresi se si è estranei alle loro origini e alle condizioni specifiche che ne perpetuano l’esistenza: un mendicante sarà sempre tale (un uomo povero che elemosina soldi) e mai qualcosa di più profondo (condizione inevitabile del sistema capitalistico).

Sembra nascere proprio da questa difficoltà di decodifica della realtà l’antropologica inadeguatezza di un uomo alle prese con situazioni che pensa di saper risolvere (fermandosi alla manifestazione superficiale delle stesse) ma da cui si lascia sopraffare (perché non distingue una vera richiesta di aiuto da una messinscena per uno scippo, una proposta di amore da una meramente sessuale). In questo non è quindi diverso dall’addetto alle pulizie del suo museo che spazza via una installazione artistica composta da mucchietti di ghiaia pensando che sia semplice sporcizia da rimuovere: entrambi sbagliano perché non comprendono ciò che fanno, con la grande differenza che se lo spazzino sovverte (anche se inavvertitamente) un mondo intellettualoide di cui non fa parte, il protagonista invece cerca di aderire a buoni propositi di fraterna umanità e solidarietà pur sapendo di essere incapace di comprendere il senso di quelle parole.

Sul piano strettamente cinematografico, invece, non sempre The Square riesce ad essere dissacrante come vorrebbe, specie nelle scene riguardanti la sfera privata del protagonista, né ad approfondire i tanti spunti che vengono solo suggeriti. Qualche scena davvero centrata, capace di far ridere anche solo con un rumore di fondo, e un paio di riflessioni stimolanti (quando finisce la responsabilità individuale e comincia quella collettiva, se esiste davvero una soglia da non superare nella libertà di espressione) forse non bastano per fare un capolavoro, ma sono sufficienti per vincere la Palma d’Oro.