The Running Man di Edgar Wright è un film programmaticamente fuori tempo massimo

The Running Man sceglie di rimanere fedele alla fonte letteraria e riflette sullo stato del cinema d’azione occidentale, sulla sua difficoltà a rinnovarsi essendo ormai inevitabilmente già scritto, già visto, già girato.

The Running Man di Edgar Wright è un film programmaticamente fuori tempo massimo

Sempre più spesso il cinema sci-fi/distopico, negli ultimi anni, si sta ponendo una domanda fondamentale: come rinnovare un genere che storicamente è stato quello maggiormente capace di leggere il presente e immaginare il futuro e che invece oggi fatica nello stare al passo con la realtà? Come creare fantasie che sopravvivano all’attualità e che ci dicano effettivamente qualcosa di nuovo sul mondo e sulla società in cui viviamo? Se lo è chiesto recentemente Bong Joon-ho con Mickey 17, “eterno ritorno” di un cinema sempre uguale a se stesso, con piccole variazioni sul tema, incapace di ipotizzare il futuro attraverso l’audiovisivo. Ed è in quest’ottica che deve essere analizzato anche The Running Man: un’opera programmaticamente fuori tempo massimo, tratta da uno dei primi romanzi di Stephen King (datato 1982 e ambientato in quello che era allora un futuro ancora lontano: il 2025) già adattato al cinema ne L’Implacabile con Arnold Schwarzenegger, simbolo di un modo di fare cinema d’azione/fantascientifico obsoleto e, visto con gli occhi di oggi, anche piuttosto ingenuo. L’idea quindi di Edgar Wright non è tanto quella di “aggiornare” il racconto originale, proiettandolo nuovamente nel futuro remoto, ma invece ambientarlo in un generico “not-so-distant future” per riflettere su come molte delle distopie del cinema e della narrativa degli anni Ottanta si siano effettivamente realizzate, tanto da essere state normalizzate.

Sono tante le suggestioni del romanzo di King che oggi ci appaiono superate dai fatti, in un’America di consumatori-spettatori che vivono sotto una dittatura mediatica, in una crisi economica senza fine, con un sistema sanitario che rende impossibile curarsi se non si è benestanti, con i ricchi blindati in cittadelle lussuose e i poveri abbandonati in periferie sovrappopolate e fatiscenti. Così come vecchia e pedante potrebbe risultare la riproposizione del j’accuse mosso dal romanzo e poi dal film del 1987 contro lo strapotere televisivo. Reality e factual non erano termini di moda all’epoca, oggi invece sono già probabilmente retaggi di un’era televisiva che si sta per chiudere. E non è più cosi scandaloso pensare che ci sia gente disposta a pagare per vedere qualcuno che si fa male e, dall’altro lato, gente disposta a mettere a repentaglio la propria incolumità per “challenges” più o meno remunerative. Ecco, Edgar Wright tutto questo lo capisce benissimo e allora sceglie di accentuare la propria inattualità, mettendola al centro del proprio film, rendendo il proprio anacronismo l’oggetto principale di discussione. Facendo questo, si sofferma intelligentemente su un aspetto tutto sommato marginale nel romanzo di King e che oggi invece assume una rilevanza decisiva: la possibilità di manipolare le immagini, quindi la realtà che raccontiamo attraverso di esse. Se King ipotizzava la “manomissione” dei filmati in un’epoca ancora analogica, oggi Wright può contare sull’intelligenza artificiale e sul deepfake. Ma soprattutto può dare per scontato che il pubblico abbia già familiarità con questi concetti, sdoganati e utilizzati ormai da anni anche nella tv commerciale per famiglie. Quello che era stato “predetto” si è verificato, non desta più scalpore, non ha bisogno più di essere spiegato allo spettatore.

Bacall e Wright scelgono di ignorare completamente l’unica cosa che il racconto originale non aveva anticipato: internet. Sarebbe stato comprensibile aggiornare la distopia di King alle logiche dell’intrattenimento digitale, dei contenuti diffusi via social e delle dirette streaming, invece The Running Man sceglie di rimanere fedele alla fonte letteraria senza stravolgimenti. Ed è per questo che il film, più che una satira sul presente o una morality tale sui pericoli dell’IA sul web, finisce per essere, ancora una volta, una riflessione sullo stato del cinema d’azione occidentale, sulla sua difficoltà a rinnovarsi essendo ormai inevitabilmente già scritto, già visto, già girato. Basato su modelli cinematografici da dare in pasto agli algoritmi, utili più al machine learning che ad altro. Wright, quindi, non si limita a “simulare” un tipo di cinema ampiamente riconoscibile, nello stile visivo (anche la città “futuristica” è simile a mille altre già viste) e nei codici narrativi, ma dialoga spesso con quella estetica posticcia che caratterizza le immagini generate dall’IA. Quelle immagini che oggi sono ovunque e non solo su internet, ma anche sui quotidiani, in tv, sulle copertine dei romanzi esposti in libreria. A farlo è un regista dallo stile invece personalissimo e riconoscibilissimo, che stavolta lavora di mimesi e lotta contro il suo stesso film per rendersi identificabile, di tanto in tanto. Rendere evidente l’intervento umano, far emergere quell’idea di ingegno che difficilmente sarebbe riconducibile a una macchina. Per farlo bisogna uscire dalla razionalità e cimentarsi con ciò che sfugge alle possibilità computazionali. Il demenziale, ad esempio, come avviene nella sequenza - già cult - con Michael Cera. Un film nel film. Anzi, il vero film di Edgar Wright in un film che non sembra essere invece del tutto suo. Ed è quello scarto di qualità, inventiva, sorpresa, che rende evidente la differenza tra l’autore e l’algoritmo.

Discorso a parte, infine, andrebbe fatto per quella conclusione così apparentemente confusionaria e raffazzonata, che cerca maldestramente di “aggirare” quell’ultima profezia del romanzo di King - forse la più sconvolgente - che si è tristemente avverata l’11 settembre del 2001. Anche in questo caso, sembra di trovarsi davanti al tentativo di una IA che si autocensura perché programmata per evitare argomenti controversi, offensivi, potenzialmente dolorosi. Quelli davanti ai quali invece gli autori non si tirano indietro.