The Post, per ammissione del suo stesso regista, è stato girato di corsa nel tempo record di nove mesi per la necessità di reagire alle gravissime bordate di Donald Trump nei confronti della stampa e per restituire un orizzonte di senso ad una popolazione (quella americana nello specifico, ma il discorso è valido anche altrove) che oggi più che mai sembra aver perso la capacità di decodificare la realtà. Si parla spesso di “fake news” in relazione al web ed ai social media, spesso trascurando colpevolmente le campagne di disinformazione che trovano invece spazio sui grandi giornali (quelli considerati autorevoli). In maniera subdola, quindi ancora più pericolosa, alcuni organi di stampa, con mezze verità e volontarie omissioni, sono stati in grado di cambiare la percezione comune della Storia, fornendo una lettura mistificante dei fatti più complessa da smontare di qualsiasi bufala. Per questo oggi il miglior antidoto alla diffusione di fake news non è quello di affidare ad una vigilanza terza (statale o privata) il compito di decidere ciò che è veritiero e ciò che non lo è, bensì rendere di nuovo centrale il ruolo del giornalismo (quello serio, che sta sempre dalla parte opposta di chi detiene il potere, per dirla con Montanelli) nella nostra società.
Questo nuovo lavoro di Steven Spielberg, che nasce quindi da un sentimento “di pancia” e da una esigenza personale, sembra però godere della cura e della profondità propria delle grandi opere cinematografiche, quelle che maturano negli anni e che vengono costantemente rimaneggiate sino a sfiorare lo stato dell’arte.
Spielberg piega la storia vera a suo uso e consumo (cosa che non è stata perdonata da quella porzione di stampa americana che della vicenda è stata reale protagonista), perché chiunque abbia sfogliato uno dei numerosi libri dedicati alla pubblicazione dei Pentagon Papers, da quello ormai celebre di Daniel Ellsberg alla cronaca di quei giorni di H. R. McMaster, saprà come il ruolo del Washington Post sia stato in realtà marginale e non di primo piano come The Post vorrebbe mostrare. Ma la volontà registica è chiara: narrare la storia da dentro la redazione del TWP (la cui editrice era, per la prima volta nella storia, una donna) e non da quella del New York Times vuol dire parlare anche di un secondo tema, che Spielberg inserisce nella narrazione come se fosse un film dentro il film, che è quello del ruolo delle donne in un mondo del lavoro ancora prevalentemente maschile.
Grazie alla versatile abilità di un maestro consapevole dei propri mezzi e sicuro di ciò che gli sta veramente a cuore in ciò che racconta, in alcune sequenze sembra che la trama principale di The Post sia proprio quella di una signora capace e determinata che non può fare a meno di confrontarsi con i propri collaboratori maschi (che dovrebbero essere suoi dipendenti ma per ragioni di genere non agiscono come tali) e non invece quella riguardante il braccio di ferro tra giornalisti ed il potere che vorrebbe impedire loro di svolgere il proprio mestiere. È fenomenale come Spielberg faccia questo senza neanche un dialogo memorabile, senza mettere in bocca ai propri attori una di quelle frasi taglienti che possono esistere solo nelle conversazioni cinematografiche, ma lavorando sulle immagini e sulla composizione delle inquadrature: così ogni scena, anche la più minuscola, nella quale tre uomini parlano di lavoro dando le spalle ad una donna che quasi scompare dietro di loro, spiega il problema della emarginazione femminile in maniera più efficace di qualsiasi monologo teatrale.
Spielberg segue gli attori muovendo la macchina da presa lungo corridoi invisibili, entrando in porte secondarie e percorrendo spazi che si svelano man mano, dove la cinepresa può accedere liberamente al contrario dei giornalisti che devono prima chiedere il permesso. Ma questo continuo spostamento dei personaggi assume una importanza inedita quando a muoversi è Kay Graham, che sembra la sola a poter passare dalle stanze in cui i maschi parlano di affari e di politica ai salotti delle donne, dove si chiacchiera delle novità letterarie e cinematografiche.
“Oh, dear. I don’t like hypothetical questions”
― Kay Graham (Meryl Streep)
La libertà di stampa in The Post non è solo quella che deve confrontarsi col potere che vuole limitarla, ma è anche quella individuale di editori che devono scegliere se tutelare gli interessi dei propri conoscenti o porre la ricerca della verità sopra ogni cosa. Lamberto Sechi sosteneva che se “i giornalisti possono avere amici, i giornali no”. Così la Graham, pur considerando la sua vicinanza con McNamara, decide lo stesso di pubblicare documenti a lui scomodi perché di interesse pubblico.
Se ne Il caso Spotlight una delle sequenze chiave era proprio quella che mostrava la stampa del giornale ad opera di macchinari talmente vecchi da sembrare arcaici, così in The Post la suggestiva immagine delle rotative in funzione, che fanno tremare fisicamente scrivanie e palazzi, assume un valore simbolico di rara purezza. È la testimonianza tangibile, palpabile ed “odorabile” della fatica altrimenti invisibile che si nasconde dietro quella pubblicazione cartacea, nonché dell’importanza di materiali forse superati (la carta come la pellicola cinematografica) ma che sembrano godere di una considerazione ancora ineguagliabile. Proprio in virtù di ciò, tanta gente, e forse anche Steven Spielberg, crede fermamente che le notizie su carta, per via del supporto che le ospita e della possibilità di passarci sopra i polpastrelli, abbiano un peso specifico superiore a quelle “immateriali” del web.
*Al cinema da giovedì 1 febbraio 2018
Comments