Non c’è nessun intreccio in The French Dispatch, nessuna trama da sviluppare orizzontalmente: è l’estremizzazione del gesto di Wes Anderson, intento a sfogliare le pagine di un magazine immaginario, supplemento di un quotidiano americano redatto in una città francese, anch’essa fittizia, Ennui-sur-Blasé, pescando dal suo ultimo numero tre racconti che miniaturizza e riduce all’essenziale. Un film a blocchi (anzi, a colonne) che permette ad Anderson di abolire definitivamente la sceneggiatura e riempirne il vuoto con una foga additiva di rappresentazioni armoniche e posticce che inghiotte la narrazione, elimina l’attore (ridotto a comparsa di lusso) e consegna un’opera incredibilmente tetra (nonostante la leggerezza del racconto e l’umorismo di alcune trovate), spettrale, irreversibilmente senza vita. L’elemento umano, che era fondamentale nei suoi primi film, quelli in cui riusciva sempre a far sì che nei suoi protagonisti così composti e ingessati facesse breccia un sentimento tanto più dirompente quanto più difficile da far emergere, è sempre meno presente nel suo cinema. Tutto si riduce ad una Wunderkammer affollata di oggetti e persone trattate come tali.
Anderson ammette il debito di riconoscenza verso la cultura europea – specialmente quella francese – tra gli anni ’50 e ’70 e lo fa come se fosse egli stesso uno Zelig che proietta su schermo il proprio desiderio di appropriarsi di un patrimonio di racconti e di immagini e di uniformarli alla sua inconfondibile forma cinematografica - tra animazione tradizionale e diorami - che come in Grand Budapest Hotel si adatta anche attraverso il cambio dei formati agli immaginari che saccheggia: al cinema degli anni ’60, al noir di Simenon, ai fumetti di Hervé, alle atmosfere di Jacques Tati. Il suo stile così evidente e preciso è in continua evoluzione (per quanto sempre nella medesima direzione) e un film come Le avventure acquatiche di Steve Zissou appare oggi lontanissimo da The French Dispatch, in cui Anderson spinge alle estreme conseguenze il suo eterno tentativo di far aderire il cinema live-action alle regole dell’animazione a passo uno, di definire i personaggi esclusivamente attraverso il character design e poi farli muovere nell’inquadratura come pupazzi in stop-motion, con quell’economia di gesti ed espressioni che diventa ricchezza.
Non c’è abbastanza spazio, nelle singole sequenze, completamente sature, per riuscire ad approfondire sentimenti e ambizioni dei diversi protagonisti: tutto procede in maniera frenetica e incessante, come se si stesse assistendo realmente ad una rapidissima revisione delle storie da mandare in stampa. Una impossibilità di comprensione che si riflette nella goffezza con cui gli stessi cronisti cercano invano di afferrare il senso di avvenimenti e periodi (il Sessantotto) che sono chiamati a spiegare sul loro giornale. I personaggi, “running at the speed of life”, non hanno modo di manifestare le loro emozioni. Si entra e si esce di scena come meteore e le relazioni umane si limitano a forzate occasioni di incontro o convivenza.
Così Wes Anderson abbozza il suo stesso cinema, preferendo la stilizzazione vignettistica (con immancabili didascalie) alla profondità della narrazione, e cerca di ricreare un’esperienza “tattile”, più in cellulosa che in celluloide, come se si stesse sfogliando un enorme libro “pop-up” per bambini.
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