L’anno è il 1750, l’ambientazione è quella della nebbiosa e fredda Austria rurale. In quei tempi la depressione, specialmente femminile, era considerata una colpa: il segno più evidente di aver ceduto alle tentazioni del diavolo. È quello che succede ad Agnes (Anja Plaschg) poco dopo aver sposato Wolf (David Scheid), marito assente e distante. Prega che il Signore le possa dare un bambino, ma il desiderio rimane inevaso poiché il coniuge sembra preferire la masturbazione al coito, per motivi che i registi decidono di non indagare. La madre di Wolf, Gänglin (Maria Hofstätter), non è particolarmente affezionata alla nuora: crede che la donna sia pigra e colpevole di non aver concepito un bambino, al punto da incoraggiare suo figlio ad abbandonarla. Agnes origlia la conversazione, quasi scoppia in lacrime. La frustrazione della giovane donna si trasforma gradualmente in depressione e autocolpevolizzazione.
Nella società patriarcale, la colpa è sempre delle donne. È uno dei punti principali che il film afferma con estrema crudeltà e violenza. Non mancano scene raccapriccianti: dita tagliate, animali macellati, cadaveri in decomposizione e procedure mediche infernali. Gli abitanti del villaggio bevono sangue umano, i bambini annoiati strappano i denti degli animali e un gallo viene sadicamente schiacciato con un’asta di metallo per il semplice divertimento del paese. La tortura e l’uccisione di queste povere creature vengono messe in scena con freddo realismo, cosa che non deve sorprendere considerando il background dei due registi, Veronika Franz e Severin Fiala, oltre che del produttore Ulrich Seidl, regista dello scioccante documentario sulla caccia Safari (2016). In questo senso, il film richiama da vicino La ballata di Narayama di Shohei Imamura, anch’esso ambientato in un mondo sprofondato nel suo silenzio, agitato da una violenza che nasce innanzitutto da false credenze, miti, convinzioni sovrannaturali.
The Devil’s Bath è una discesa nella follia femminile simile a quella di Anna di Carl Theodor Dreyer in Dies irae (1943). Anja Phaschg, già molto nota per il suo progetto musicale Soap&Skin, si offre anima e corpo ad un film dalla connotazione fortemente anti-clericale, in cui i dogmi della religione finiscono per condizionare in maniera tragica la vita di chi ci crede ma anche - e qui sta la grande intuizione - quella delle incolpevoli vittime che malauguratamente diventano oggetto della follia altrui e del fanatismo cieco di estranei. La religione non è qualcosa che fa semplicemente male al singolo, annientato nella sua capacità di autodeterminazione, ma qualcosa che costituisce un pericolo pubblico, dal quale non ci si può dire mai davvero al sicuro.
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