Il nuovo film di Super Mario Bros., nato dalla collaborazione tra la Illumination (relativamente giovane casa di produzione cinematografica statunitense fondata da Chris Meledandri) e la Nintendo (storica azienda giapponese specializzata nella produzione di videogiochi), arriva a sei anni di distanza dall’ultimo episodio videoludico dedicato alla celebre icona giapponese: Super Mario Odyssey, capolavoro di level design e gameplay che aveva alzato nuovamente l’asticella delle possibilità di espressione attraverso il mezzo del videogioco. Messi davanti all’esigenza di una narrazione cinematografica classica, i registi Aaron Horvath e Michael Jelenic hanno quindi dovuto affrontare la sfida di riuscire a restituire su schermo un’esperienza che, pad alla mano, sta invece tutta nella gioia dell’esplorazione e nell’eccitazione della precisione, del calibrare il salto e i tempi giusti.
Super Mario Odyssey, aprendosi alla possibilità per il personaggio principale di diventare potenzialmente tutto ciò che lo circondava - dai suoi nemici, agli eventi atmosferici, alla corrente elettrica che scorreva nei cavi - si poneva quasi come una meditazione vagamente antispecista sulla fluidità dell’identità, ma anche sulle fantasie di ubiquità degli appassionati dei videogiochi, abituati da sempre a proiettarsi e a immedesimarsi in dimensioni e corpi altri. Ed è così che i giocatori avevano lasciato il loro scopritore e liberatore di mondi in salopette: ipersensibile e moltiplicato, fluido e inafferrabile in un’immagine univoca e data una volta per tutte. Adesso, per forza di cose, il tentativo di adattamento cinematografico deve invece fare l’esatto opposto: “ridurre” la profondità del videogioco a una narrazione lineare e godibile, a uno “showcase” che deve sia risultare simpatico sia rendere evidente la rilevanza della proprietà intellettuale con cui si ha a che fare. A quel punto, la linea tra cinema e marketing diventa sottilissima, e la necessità di infilare in pochissimo tempo (appena 90 minuti) molti dei personaggi, degli oggetti e dei luoghi che sono apparsi in oltre trentacinque anni di esistenza del franchise, finisce per disinnescare quella che è sempre stata la vera bellezza dell’esperienza videoludica.
Se ci sono giochi platform da attraversare come un sogno – quelli indie più moderni, ad esempio – e quelli che invece fanno penare così tanto il giocatore da regalare una sensazione di sollievo quando finalmente ci si lascia le loro sfide alle spalle – Cuphead o Super Meat Boy, ad esempio, o, per restare in ambito Nintendo, alcuni capitoli di Donkey Kong Country - la saga di Super Mario è sempre stata un’altra cosa: un gioco in cui la vittoria non consiste nel superare percorsi più o meno accidentati e pieni di ostacoli, quanto nell’imparare a conoscerli e abituarsi ad essi, nel percorrerli ripetutamente finché non si padroneggiano tutte le loro asperità. E così, i “mondi” di Super Mario non costituiscono una stanca sequenza di livelli da dominare (come invece avviene nel film), ma differenti rappresentazioni di un unico universo in cui correre, saltare, nuotare, planare e alla fine sentirsi a casa, in cui finalmente, dopo averlo esplorato a fondo, si può essere a proprio agio. Il film targato Illumination, invece, riesce a dire qualcosa di unico sui videogiochi (che Super Mario ha contribuito a rendere fenomeno di massa) e sui loro meccanismi solo in alcuni rarissimi momenti: quando, per l’appunto, costringe Mario a fare e rifare più volte la stessa cosa perché “nessuno ci riesce la prima volta”, quando lo spinge a provare e riprovare, fallire e ritentare fino a che non è in grado di capire il tempo giusto con il quale saltare, la distanza da coprire, la velocità con cui farlo. È in quelle scene (e quelle soltanto) che Super Mario Bros. - Il Film si eleva dall’essere semplicemente un grosso concentrato di gag (molte delle quali riuscite) e fan service, per competere invece sul terreno di operazioni metatestuali più sofisticate come The Lego Movie.
Tutto questo diventa ancora più deludente se si pensa all’impeccabile lavoro fatto dallo studio di animazione americano per restituire una realistica e credibile qualità tattile ad ogni materiale con cui i personaggi entrano in contatto nel corso della storia. Se l’animazione in computer grafica di questo genere di film non bada molto alle differenze di texture e consistenze dei diversi materiali, preferendo invece un’estetica più omogenea, in cui non si percepisce una sostanziale differenza dalla pelle di un personaggio al tessuto degli indumenti che indossa, in questo caso è invece molto chiaro come alcuni oggetti non siano del materiale che ci aspetteremmo e che nel complesso il mondo in cui si muove Super Mario è una strana via di mezzo tra uno immaginario, plasticoso come il suo merchandising, e uno più tangibile (che viene introdotto proprio nelle prime sequenze newyorkesi). Ed è proprio tornando con la mente a Super Mario Odyssey, a quell’avventura videoludica da vivere nel continuo cambio di consistenza, peso specifico e densità, che ci si rende conto di quanto il film Illumination-Nintendo sia stata un’occasione mancata e uno sforzo tecnico inutile.
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