NYFF | Springsteen: Liberami dal Nulla è un film onesto e stranamente crepuscolare

Springsteen: Liberami dal nulla è un film decisamente meno adrenalinico e “rock” di quello che ci si potrebbe aspettare, ma decisamente più compassato e crepuscolare.

NYFF | Springsteen: Liberami dal Nulla è un film onesto e stranamente crepuscolare

Se c’è una cosa che colpisce subito di Springsteen: Liberami dal Nulla, primo film di finzione dedicato al leggendario cantautore statunitense, diretto da Scott Cooper (che già di musica e di biopic si era occupato con Crazy Hearts), è la volontà di andare deliberatamente contro tutti i film biografici più recenti e di successo. Non solo i film più smaccatamente commerciali e agiografici, come ad esempio Bohemian Rhapsody, ma anche quelli con un approccio apparentemente più autoriale, come nel caso del recente A Complete Unknown su Bob Dylan. Cooper, con grande modestia e spirito di servizio, confermandosi nuovamente alfiere di un modo di fare cinema che forse non esiste più, sceglie di soffermarsi su di un preciso istante della storia (artistica e personale) di Springsteen – cosa che anche altri film hanno già fatto – e di raccontarla attraverso gli accadimenti più piccoli e trascurabili, rinunciando a tutte quelle scene chiave e alle esibizioni karaoke che spesso appesantiscono questo tipo di film. Il risultato, per questa decisione comunque coraggiosa, è quindi decisamente meno adrenalinico e “rock” di quello che ci si potrebbe aspettare, ma decisamente più compassato e crepuscolare (cosa abbastanza paradossale, considerando che il film racconta di un cantante in ascesa, che da lì a qualche anno sarebbe entrato nella leggenda). Ovviamente l’album di cui si racconta la genesi – quello strepitoso Nebraska concepito in una camera da letto, solo voce e chitarra, e registrato con impianti obsoleti e “do it yourself” – giustifica questa scelta registica. Springsteen, in quel caso, decise in maniera controintuitiva di non percorrere la via più facile e sicura, ma invece di seguire il proprio istinto senza ascoltare quello che il mercato e i produttori gli consigliavano di fare.

Cooper, in qualche modo, fa lo stesso, senza però riuscire a comunicare sempre con efficacia l’urgenza di quell’album, le pulsioni e i tormenti che ne accompagnarono la creazione. Liberami dal Nulla è quindi un film che mette al centro – come altri della filmografia del regista – un personaggio solitario, che fugge dal successo e dall’acclamazione per rifugiarsi in un’intimità che appare per certi versi anche triste, sacrificata, non particolarmente desiderabile. Ma è anche un film che parla di depressione e di abusi familiari senza scadere nel patetico o nel melodrammatico. Ad emergere, nonostante l’ottima prova di Jeremy Allen White, che fa il suo senza eccedere, come è giusto che sia nel tratteggiare il ritratto non tanto di una star quanto di un “working class hero”, è il manager interpretato da Jeremy Strong, stavolta in un insolito (per lui) ruolo, che lo libera finalmente dallo stereotipo del nevrotico e del narcisista disfunzionale e gli regala invece la possibilità di indagare nuove forme di tenerezza ed empatia. Il suo – ispirato ovviamente al manager reale del cantante, Jon Landau – è un personaggio splendido, capace di comunicare allo stesso tempo fiducia e insicurezza, uno di quelli che cerca sempre di rassicurare tutti pur ammettendo spesso con onestà di non sapere quale sia la cosa giusta da fare. In questo caso, la cosa giusta per proteggere la “verità” della musica del suo amico (e assistito) e allo stesso tempo impedire che la sua carriera subisca una brusca frenata dovuta a un possibile insuccesso commerciale. Prova maiuscola che fa il paio con quella, straziante, di Stephen Graham nei panni del padre di Springsteen.

Una delle poche concessioni che il film fa al biopic più tradizionale, inteso come prodotto industriale, sapientemente assemblato, è la presenza di una relazione romantica, che in questo caso è addirittura fittizia, inventata senza rifarsi alla reale biografia di Springsteen. Forse proprio per questo, Cooper sembra quasi enfatizzare questa “irrealtà”, trattando la presenza della giovane madre single – che ha il volto di Odessa Young – come una presenza fantasmatica, il manifestarsi di un desiderio di stabilità familiare e affetto che il cantautore sa di non poter soddisfare in quel momento della sua vita e che proietta malinconicamente su scenari spesso anch’essi fantasmaticamente vuoti e abbandonati, come nelle bellissime riprese ad Asbury Park. Quello che manca, semmai, è il giusto ritmo, la giusta alternanza tra linee temporali differenti, che cadenzi meno regolarmente il racconto e lo renda invece più libero e indipendente come la musica dello stesso Springsteen.

È un film, quello di Cooper, che in ogni caso ha un profondo rispetto verso la storia che racconta e che trova i suoi momenti più riusciti proprio nelle scene in cui – senza calcare la mano e risultare didascalico – rivela le influenze (non solo musicali, ma anche cinematografiche e letterarie) che hanno contribuito a plasmare quel suono così unico e inusuale, così come ad alimentare la mitologia da cui Springsteen ha attinto per scrivere quelle canzoni poi entrate nella storia. Trasformando dei racconti scritti in terza persona in un racconto in prima. Il film di Cooper forse non riesce a farlo con altrettanta maestria, ma gli va comunque attribuito il merito di aver disatteso le aspettative del pubblico per cercare una sua voce personale all’interno del film. Con una certa ironia, infine, il lungometraggio - in cui si racconta dell’impossibilità di arrangiare efficacemente in chiave rock quei pezzi scritti in acustico da Springsteen - accompagnerà l’uscita del cofanetto Electric Nebraska, in cui sono contenute per la prima volta proprio quelle registrazioni che nel film vengono invece raccontate come un fallimento.