Mike Leigh, con questo suo ultimo film, fa la cosa più complicata: ci mette davanti a una protagonista che ci è difficile da capire, che ci appare † ingiustificabile, respingente, offensiva, mossa da un sentimento di rancore esasperato con cui non è immediato empatizzare e che la mette costantemente in rotta di collisione con il mondo: dalla famiglia (un marito emotivamente distante e un figlio isolato, con evidenti problemi di socializzazione), ai commessi nei negozi, fino agli sconosciuti che non le vanno a genio. Molti di loro la affrontano con la sua stessa violenza, accettano lo scontro e si pongono al suo stesso livello quando c’è da litigare: nessuno sembra invece avere alcuna voglia di fermarsi a indagare da dove proviene quell’odio ingiustificato verso il resto dell’umanità. L’unica che ha capito che forse c’è un disagio più profondo dietro a tutto quel livore è la sorella della donna, parrucchiera gentile e incline all’ascolto, paziente con tutti e sempre sorridente, che cresce tenacemente due figlie in “carriera” dopo che il papà le ha lasciate. La sua famiglia - teoricamente perfetta, invidiabile - si specchia in qualche modo nella prima, che risulta invece danneggiata e compromessa. Eppure non diventa mai un modello a cui tendere, perché anch’essa, sotto la sua patina di amorevole convivialità, nasconde quelle “hard truths” citate nel titolo del film, quelle frustrazioni che è difficile confidare anche a chi ti è più vicino, che è sempre più conveniente tenere nascoste. Scomode verità che, sembra di capire, sono consustanziali al modello famigliare, indipendentemente dalla sua buona tenuta. D’altronde, si tratta di nuovo di “segreti e bugie”, già esaminati da Leigh nel suo film del 1996. Come in quel precedente lavoro, c’è un lutto che segna la protagonista (in entrambi i casi Marianne Jean-Baptiste) e una scena di una festa in famiglia che si trasforma in un incubo, lasciando lo spettatore in un imbarazzo che è molto simile a quello che invade, nella finzione, i parenti che si riuniscono per celebrare qualcosa di effimero con lo scopo di occultare quello che non si vuole far emergere. Rovesciando e ridimensionando il fenomeno edipico e la sua eredità tutta al maschile, il cinema di Leigh elimina la figura del padre dell’equazione e racconta di una trasmissione di valori che causa in chi ne è destinatario, l’ereditante, una serie di aspettative e richieste rispetto al mondo che lo conducono a cercare continuamente di estinguere il proprio debito con l’ambiente che lo ha generato: un continuo saldare un conto mai richiesto.

Leigh fa capire tutto di ogni personaggio con una encomiabile parsimonia di dialoghi e inquadrature e concedendo a ciascuno una sola scena chiave (se si esclude ovviamente il tempo maggiore riservato alla protagonista), Anche quelli “positivi”, ben presto, si rivelano incapaci di afferrare il malessere di Pansy, o forse troppo spaventati nel dare a quel malessere un nome preciso che è quello della depressione, alimentando così lo stigma che crea un circolo vizioso di alienazione e discriminazione, conducendo infine a un grave isolamento sociale, a fenomeni di emarginazione e protratta marginalizzazione. La sofferenza covata dalla protagonista del film è talmente ingombrante da creare fin troppo spesso fraintendimenti, consentendole di articolare la realtà che la circonda esclusivamente attraverso il linguaggio del conflitto. Il cinema di Leigh però stavolta non concede alcun sollievo a questo dolore, denuncia l’inefficacia del mezzo, la sua inadeguatezza, si rifiuta di “drammatizzare” questa rabbia, addomesticandola in un epilogo conciliante o lasciandola esplodere in una catarsi finale. Si limita ad osservarla, sperando così di intuire qualcosa. Bisognerebbe invece intervenire, ma non c’è nessuno disposto a farlo, per evitare che quella depressione senza terapie, non trattata, sfoci in qualcosa di persino peggiore (il cervello, a lungo andare, mostra segni simili a quelli causati dalle malattie degenerative progressive). Anche per questo il film comincia con delle note quasi comiche e si trasforma poi progressivamente nel suo opposto, cambiando completamente il tono. Se inizialmente lo spettatore si ritrova davanti a delle sfuriate di Pansy che sembrano quasi delle performance, più si va avanti e più la collera di Marianne Jean Baptiste lascia per terra qualsiasi tentativo di “teatralizzazione” per farsi sempre più realistica. Il film dismette ogni accenno di ironia e ci fa capire di non avere alcuna intenzione, appunto, di trasformare la malattia in uno spettacolo, in una narrazione. Allunga sempre di più le sue scene, rimandando continuamente lo stacco di montaggio. Anche la macchina da presa, come i personaggi che osserva, si paralizza. Non è - anche se può sembrarlo - una mancanza di pietà, ma la scelta di metterci davanti a un’ultima verità, la più difficile: che non sempre possiamo essere in grado di comprendere quel che abbiamo davanti.
Comments