Chris Sanders, uno degli autori più audaci e innovativi nel mondo del cinema d’animazione occidentale, ha elaborato negli anni una strana poetica fatta di corpi non conformi, menomati, quando non addirittura mutilati (Dragon Trainer), che non rispondono assolutamente ai canoni estetici dei protagonisti a cui siamo abituati. Un autore che ha “sovvertito” tutte le regole che la DreamWorks aveva codificato nel corso degli anni, a cominciare dalla spiccata e spesso stucchevole metatestualità delle sue sceneggiature (si pensi a quanto fatto con I Croods, in cui Nicolas Cage, forse l’attore che maggiormente si è prestato con la sua carriera ad un gioco meta e inter testuale, veniva confinato a “semplice” doppiatore). Nei film di Sanders i protagonisti spesso lottano, con le proprie ambizioni e i propri sentimenti, contro il loro stesso character design, che li vorrebbe invece relegare a personaggi secondari. Proprio I Croods si chiudeva con un abbraccio, pur essendo ambientato in un tempo in cui non esisteva ancora la parola “abbraccio” per definire quel gesto a parole, sintetizzando così tutto ciò che il cinema d’animazione occidentale contemporaneo aveva teorizzato fino a quel momento, ovvero la supremazia del movimento sul linguaggio verbale: le azioni dei personaggi erano sufficienti per caratterizzarne la personalità. Non c’è quindi da stupirsi se i primi folgoranti minuti de Il Robot Selvaggio, completamente muti, ci mostrino una “natura selvaggia”, radicalmente differente da quella tipicamente presentata dai cartoni animati con animali parlanti e invece molto più vicina a quella dei film di Herzog: un posto dove la morte è sempre dietro l’angolo, che minaccia continuamente l’incolumità fisica dei propri abitanti, popolato da bestie interessate solo alla propria sopravvivenza, diffidenti e violente nei confronti dell’estraneo che arriva ad invadere il loro territorio. Estraneo che solitamente, in storie come questa, è l’uomo e che in questo caso invece è un robot. Una macchina originariamente programmata per svolgere compiti di assistenza nella vita quotidiana degli esseri umani che si trova costretta ad adattarsi a un ambiente ostile, nel disperato tentativo di trovare nuove mansioni da svolgere e nuovi “utilizzatori finali” da soddisfare tra la fauna selvatica locale. Che, però, di essere aiutata, servita e riverita non ne vuole sapere. Sarà una paperella appena uscita dal suo uovo che sveglierà nella macchina un istinto materno, sconvolgendo la sua programmazione e mettendo in risalto il vero tema del film, che poi è quello di tutto il cinema di Chris Sanders: la messa in discussione di ogni forma di appartenenza a un gruppo, a un “branco”, e di obbedienza alle regole. Non solo quelle “artificiali” del robot, ma anche quelle naturale degli animali, chiamati, in una delle scene più belle del film, a dover frenare i propri istinti predatori per una notte perché costretti a convivere in una capanna angusta.

Come i migliori film d’animazione degli ultimi anni, anche Il Robot Selvaggio gioca continuamente con il contrasto tra computer grafica e disegno a mano, tra la potenza di calcolo dell’algoritmo e l’apparente semplicità del tratto pittorico, quindi umano, tra il fotorealismo e l’impressionismo. Non è infatti un caso che, man mano che la storia va avanti e il personaggio di Roz si allontana sempre di più dalle sue impostazioni di fabbrica, anche il suo aspetto subisca delle modificazioni che lo rendono gradualmente un organismo “vivo” e meno asettico. Roz stessa, a differenza degli altri animali dell’isola, è generata al computer, ma perderà progressivamente quell’estetica nel corso del film adattandosi al suo nuovo ecosistema. Un cambio che appare chiaro nel momento in cui il robot protagonista incontra altri esemplari della sua “specie”, a quel punto già completamente differenti da lei, ingabbiati nella loro computer grafica senza alcun tocco umano a renderli più “amichevoli”. La nitidezza digitale di Roz viene sostituita a poco a poco dal disegno a mano, inizialmente con leggere aggiunte e piccoli tocchi, fino a rimpiazzare completamente l’ammasso di pixel iniziali. È in questo modo che il robot finisce per assomigliare agli altri animali, fin da subito meno dettagliati e meno fotorealistici, e ad emanciparsi definitivamente dalla propria comunità di appartenenza. In questa capacità di raccontare il cambiamento emotivo di un personaggio innanzitutto attraverso il cambiamento del suo aspetto esteriore sta la principale forza di un film che mette tutto al servizio dei propri protagonisti: dal cast di doppiatori - che non impongono mai la propria personalità come invece avviene in altri film DreamWorks - alla colonna sonora, chiamata spesso a “colmare” la mancanza dei dialoghi (presenti in un numero decisamente inferiore rispetto allo standard dell’animazione occidentale). In maniera più decisa e consapevole rispetto ad altre produzioni recenti, l’opera di Chris Sanders sfugge all’attrazione gravitazionale della computer grafica che ha dominato l’estetica degli ultimi vent’anni di cinema d’animazione (almeno fino al cataclisma di Into the Spider-Verse). Non per eliminarla completamente, compiendo un anacronistico salto indietro tecnologico, ma trovando un equilibrio intelligente che permette a stili di animazione diversi di dialogare tra loro, di confrontarsi e di raccontare qualcosa proprio attraverso il conflitto tra elaborazione meccanica dei dati e creatività umana. La computer grafica, d’altronde, è sempre stata un elemento “traumatico” nel cinema, un corpo estraneo con cui dover fare i conti. Ma, come ci dimostra Il Robot Selvaggio, è possibile oggi renderla più umana, meno distante dallo spettatore, stravolgendone l’iniziale destinazione d’uso, ovvero quella del realismo a tutti i costi.