La differenza tra il primo e il secondo romanzo (pubblicato però solo successivamente) di William Burroughs è lampante. Se Junky trattava dell’assuefazione, Queer racconta l’astinenza, durante la quale si può sentire il bisogno coatto di un pubblico, che il protagonista - un dandy decadente prigioniero del suo desiderio inappagato - trova in un ragazzetto più giovane di lui. Un suo personale Junky, se vogliamo, Luca Guadagnino lo ha già realizzato con Bones and All, splendido cannibal movie sull’adolescenza vorace, ed è adesso con questo Queer che giunge invece alla narrazione senile, mettendo in scena un uomo «disintegrato, disperatamente bisognoso di contatto, del tutto insicuro di sé e dei propri obiettivi», come dichiarato da Burroughs nella sua Introduzione del 1985. Adattare Burroughs vuol dire riconoscere innanzitutto la conflittualità con il mezzo attraverso il quale raccontava le sue storie («non c’è ancora un medium adeguato, a meno di inventarlo», confidava a Ginsberg) e se la trasposizione di Guadagnino è ottima nel mettere in scena le “fantasie di fusione carnale” del suo protagonista, lo è meno nel centrare le immagini ricorrenti di “dolore e amputazione” (citando Oliver Harris nel suo saggio sul testo) che pure erano una componente fondamentale del romanzo. Romanzo motivato e plasmato, per ammissione del suo stesso autore, da un evento che non viene però mai menzionato esplicitamente nel racconto, ma anzi evitato con cura e che invece nel film è maldestramente restituito allo spettatore: l’uccisione accidentale della moglie di Burroughs, Joan Vollmer, con un colpo di pistola, avvenuta nel settembre del 1951. Una donna tragicamente dimenticata e che questo film fatica ad evocare in maniera rispettosa e sensata, dedicando un passaggio a quella vicenda ma decontestualizzandola in una coda che tende solo fintamente al biopic. È infatti sulla sottilissima separazione tra Burroughs (l’autore) e Lee (il protagonista fittizio) che il film gioca, specialmente nel capitolo conclusivo, in cui anche le sembianze di Daniel Craig vengono trasfigurate per assomigliare a quelle del leggendario scrittore beat.
Dal punto di vista stilistico Guadagnino esplicita quella «doppia esposizione simultanea» menzionata dallo stesso Burroughs: una sovrapposizione di immagini che rende contemporaneamente visibili «il ghigno di nuda libidine», distorta dal dolore e dall’odio, e «il dolce sorriso infantile pieno di simpatia e fiducia» di questo alter-ego teneramente disperato, che impara a sue spese la differenza tra il bisogno, che può essere appagato, o placato nel senso dell’astinenza del tossicomane, e il desiderio, che è sempre un tentativo destinato al fallimento. Ed è per questo che Queer accetta totalmente la sua dimensione più cupa, raccontando il dolore delle sconfitte e la claustrofobia delle comunità marginalizzate, rinunciando all’edonismo e descrivendo la parabola di un uomo che ha superato le pretese della sua carne molesta, cautelosa, che invecchia con terrore e sgomento. Il sogno di superare i limiti dell’esistenza carnale, di evadere dal proprio corpo o di acquisirne un altro, è forse vecchio quanto l’uomo stesso, come testimoniano numerose favole e miti antichi. «L’uomo deve fare l’atto di incarnarsi» scriveva Simon Weil, «perché è disincarnato dall’immaginazione». E sta tutto qui il film di Guadagnino, nel desiderio di uscire dal proprio corpo e penetrare in altro, o in un altro. Semmai, stavolta, è proprio una generale morigeratezza che mal si adatta alla narrazione, drogata, di Burroughs, che nel romanzo procede per spasmi e per immagini che si accumulano l’una sull’altra, incantandosi e ripetendosi, passando dalla terza alla prima persona, inceppandosi sui risentimenti del suo disintegrato protagonista. L’avventurosa spedizione nella giungla alla favolosa ricerca della pianta dalla quale si estrae una droga chiamata telepatina, diventa innanzitutto una questione amorosa, romantica, e non il sogno del controllo della mente altrui come invece lo intendeva Burroughs, nel pieno della Guerra Fredda, in cui l’invenzione retorica della telepatina s’innestava, nera e umorale, sul cuore del racconto. «Obbedienza automatica, schizofrenia sintetica, prodotta in massa su ordinazione». La dipendenza come metafora totale, globale. Anche in questo caso, Guadagnino trova una inattesa affettuosità e vicinanza ai suoi protagonisti, decidendo di raccontare questo viaggio psichedelico come un viaggio verso una maggiore e reciproca comunicabilità, il tentativo di poter dialogare finalmente con l’altro in profondità, oltre la superficialità dei “numeri” di avanspettacolo che il protagonista utilizza per catturare l’attenzione dei suoi potenziali amanti.
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