“Alla fine, dove canta lui, c’è sempre una pozza di sudore, come quando i pugili s’allenano al sacco”. Così Gianni Mura raccontava gli spettacoli dal vivo di Vinicio Capossela, cantautore che di pugili, sentimentali o meno, nel suo bestiario, ne ha inclusi parecchi. Non a caso il suo Santa Claus che si spara, protagonista della rivisitazione di “Santa Claus Is Comin’ to Town”, viene fuori da un aforisma di Jake LaMotta. “Eravamo così poveri che a Natale il mio vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente, niente doni quest’anno. Babbo Natale si è suicidato”. Di match, Capossela ne ha disputati tanti, anche letterari, come quello “contro” Vincenzo Costantino Cinaski, altro nume tutelare delle notti natalizie al Fuori Orario, in cui il cantautore spiegava che la boxe, in fondo, è un po’ la metafora della vita: “Un incontro dopo l’altro. Il gong e ancora il gong, e noi sempre più suonati, destinati tutti a diventare vecchie glorie, orfani dei riflettori della nostra gioventù” (In clandestinità - Mr Pall Incontra Mr Mall, Feltrinelli, 2013). A colpi di guantone Capossela ha già sfidato nel 2003 la sua stessa opera, l’antologia “indispensabile” delle sue canzoni più famose, nello storico tempio della boxe italiana, il Palalido di Milano, e adesso questo film diretto da Gianfranco Firriolo, che racconta oltre vent’anni di serate al Fuori Orario, storico locale di Taneto di Gattatico, fa venire alla mente un altro momento leggendario del pugilato: quel “phantom punch” con cui Muhammad Ali mandò al tappeto Sonny Liston nel maggio del 1965. Il gancio destro da quattro centesimi di secondo che resta ancora oggi nel regno dei forse, dove finiscono ammucchiate le cose quasi vere del mondo. È un corpo a corpo con l’archivio, con il passato già registrato. Tutte le immagini di questo strampalato documentario vengono da quel regno lì, da un passato mitico rivissuto come un sogno, con una nostalgia che si fa “saudade”, nella concezione originaria del termine, raccontata anche da Manoel de Oliveira, ovvero di “malinconia declinata al futuro”, in cui si vive un momento felice già pensando a quando questo svanirà, a quando rimarrà vivo solo nella memoria, a quando il pianeta che ci ospita non sarà altro che un teatro di devastazione e non ci sarà più nulla e nessuno da “ri-creare” con la musica, con la festa. 

Il documentario, come il tacchino d’oriente messo in scena da Kusturica, si emancipa dalla necessità di documentare, mette le ali e vola in un altrove cinematografico che è fatto di suggestioni nebulose, di fantasmi che affollano un locale, lo stesso Fuori Orario, che diventa spazio mentale, sublimazione di un immaginario intero, di un mondo che assomiglia a quello reale senza però essere tale, come lo sono i pub e i locali del cinema di Kaurismäki. Come Enrico Ghezzi splendidamente puntualizzava sul film La jetée di Chris Marker, ogni immagine grida allo spettatore: “Sono stato” (J’ai été). Se si è immagine vuol dire che si è già stati, eppure nessuna immagine esaurisce mai la sua funzione nel momento in cui viene riutilizzata, reinventata, in un’ecologia cinematografica che in questo caso pesca anche dal precedente film-evento realizzato durante il periodo del Covid.

Il Gigante, il Cantante e il Mago si muovono con circospezione tra le rovine e comunicano tra di loro con gesti e qualche mezza parola. Vengono in mente i versi di Boris Ryžyj: «È passata la sbronza e il mondo non è cambiato. È arrivata la musica, sono finite le parole. Ma forse, le parole non servono affatto per questi poveri scemi. Me ne sto sotto le nuvole grigio-azzurre e allargo ottuso le mani, riempito ovunque di musica». Il mantice soffia fantasmi dentro al fotogramma e questi si espandono fino a che hanno spazio.