Ragazzi in vacanza in una località balneare che fanno le cose che fanno i ragazzi quando sono in vacanza in una località balneare. Passioni fugaci, nuove conoscenze, piccoli screzi e gossip balneari. Non c’è davvero nulla da aggiungere alla sinossi di quello che è il nuovo lavoro di Abdellatif Kechiche (il primo di una serie) che sembra seguire un approccio simile a quello che ha reso famoso il cinema di Richard Linklater, ovvero parlare dei propri personaggi per mezzo degli episodi più marginali che scandiscono i loro giorni. Eppure è diverso l’uso che Kechiche fa di una narrazione senza snodi chiave, che procede dall’inizio alla fine sulla medesima frequenza senza sbalzi o flessioni, e che serve uno scopo non diverso da quello de La vie d’Adèle: imporre il predominio della carne sulla ragione.
Se ne la Trilogia dell’Alba o in Boyhood, i dialoghi, pur essendo semplici e privi di qualsiasi orpello, servivano comunque a suggerire una evoluzione nei personaggi, nel film di Kechiche ogni scambio verbale è frivolo e vacuo, non aggiunge nulla alla narrazione né si rivela funzionale alla descrizione dei ragazzi. Kechiche lavora così a fondo sulle immagini che il sonoro, dalle musiche al suono delle parole, sembra essere quasi superfluo. Persino una lunghissima sequenza in disco di quasi mezz’ora è resa viva non dalla musica, ma dalle luci (fasulle) della sala che irrompono in un film che invece ha quasi sempre il sole nel suo campo visivo e si dipinge dei suoi colori (reali). Sono gli sguardi che si cercano ed i minuscoli cenni del capo a suggerire cose che le parole non riuscirebbero a spiegare con eguale efficacia. L’occhio di Kechiche non si muove dai corpi dei giovani di cui narra: nega panoramiche e campi lunghi, riduce ogni scena a primi piani e piani americani, riuscendo ad inquadrare per 3 lunghe ore di film quasi sempre e solo i suoi personaggi, da cui non si separa mai.
I personaggi del film vogliono piacere e si piacciono. Nessuno di loro sembra in grado di sfuggire al richiamo che proviene dalle persone che li circondano (persino lo zio, che con il suo modo di fare sgradevole crea noia ed imbarazzo, non viene escluso dal giro di avance) se non per il personaggio principale, quello di Amin, che non gode mai delle bellezze che gli passano vicino e che a lui si offrono senza giri di parole. Il ragazzo osserva con separazione (il film si apre non a caso con una scena di voyeurismo) le azioni dei suoi amici. Ma Amin non è Kechiche, che invece si avvicina ai corpi come se volesse anche lui sfiorarli con la cinepresa, così come non siamo Amin noi che guardiamo, che non abbiamo la sua freddezza ed anzi vorremmo vedere anche lui nella mischia di quei corpi che ballano e si muovono. Però ciò che avviene su schermo passa sempre prima dai suoi occhi, non può arrivare a noi senza la mediazione del suo sguardo che, proprio come il cinema, solo in apparenza riproduce il reale, ma invece ci rende ciò che per forza di cose non è che la conseguenza di una elaborazione personale.
Il film si apre con una scena di sesso (ripresa in quella maniera unica di Kechiche, che percorre con la cinepresa la pelle) ma è chiaro che il fascino dei corpi che i personaggi “subiscono” li guida anche al di fuori della sfera sessuale e nelle azioni più ordinarie. Il desiderio amoroso, come spesso avviene al cinema, rimane in sospeso perché i personaggi lo rivolgono sempre ad un ragazzo o ad una ragazza che invece vorrebbe cadere in braccia diverse. Ma l’operazione che il film compie è più complessa di quel che sembra: prendere un genere classico come quello del “Teen movie” e ripensarlo non aderendo a nessuno dei canoni che quel genere impone. Lo sguardo non è più sul singolo, come avveniva ne La vie d’Adèle, dove si narrava di una ragazza in un passaggio unico della sua adolescenza, ma si allarga alla razza umana ed evolve in un discorso sulla esigenza di soddisfare le pulsioni più basse per vivere e sopravvivere (il cibo nel film di Kechiche non è secondario al sesso, come sa bene chi lo segue dagli anni di Cous Cous).
Quello di Kechiche è oggi un cinema complesso e consapevole, che riprende alcune idee degli esordi (la narrazione corale de L’Esquive) per proporle con una padronanza del mezzo che prima non c’era e che adesso invece sembra dare nuova forza ad immagini che non vogliono in alcun modo raffigurare l’eccezionale ma solo l’ordinario, per comporre un mosaico dove i singoli pezzi non valgono nulla ma dai quali non si può prescindere per delineare la figura globale. I ragazzi di Kechiche non fanno nulla affinché il pubblico si affezioni a loro e le scorribande che li coinvolgono non sono né memorabili né speciali. Così chi guarda prova le medesime sensazioni di piacere di quei personaggi che prima compaiono e poi spariscono dallo schermo: frivole e di poca rilevanza, eppure cariche di giovanile energia e gioiosa esuberanza.
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