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Rodrigo Sorogoyen è oggi uno degli autori fondamentali per capire il cinema europeo contemporaneo. E lo è anche per via della sua spiccata transmedialità di regista per il cinema e per la televisione, completamente a suo agio nella compattezza del thriller così come nella dimensione seriale, già con Antidisturbios nel 2020. Autore di opere magistrali come As Bestas e Madre e adesso ideatore, sceneggiatore e regista (insieme a Sara Cano e Paula Fabra) di Los años nuevos, una serie - o un film in dieci episodi, come spesso ci si domanda in questi ultimi tempi - che ha la poesia di Pedro Salinas (Qué alegría, vivir: sintiéndose vivido) e le ambizioni di Linklater, che racconta la “razón de amor” di una coppia lungo un decennio di convivenze e separazioni, con ogni episodio ambientato durante i dieci capodanni che lo scandiscono. Una riflessione sul tempo della giovinezza, sul tempo dell’amore, sul tempo del cinema e su quello della televisione, che prosegue la sperimentazione di Sorogoyen sulla coppia (dai tempi di 8 citas) come unità fondamentale delle proprie narrazioni. Una serie che, pur raccontando principalmente di due amanti, risulta comunque avvolgente, corale, attraverso un sofisticato meccanismo di specchi, riflessi e rimandi, che consente ai due protagonisti di mettersi continuamente in discussione, confrontandosi con altre coppie (di amici, parenti, sconosciuti) con l’obiettivo di far comprendere allo spettatore che l’amore non è solo quello rappresentato da Óscar e Ana. Che il loro non è l’unico modello di coppia possibile, ma che invece ci sono infiniti modi di vivere una relazione e che nessuno è pregiudizialmente migliore dell’altro.

Dieci episodi che si affollano di personaggi e poi progressivamente si svuotano, che si espandono nello spazio, anche con viaggi e spostamenti in altre nazioni, per poi nuovamente restringersi, fino alla conclusione nella camera di un hotel. Ogni capitolo riesce a proporre una prospettiva differente sulla stessa storia, trovando ogni volta un respiro nuovo: il capitolo iniziale tra il rumore della festa non ha nulla a che vedere con quello allucinatorio che corre per le strade Berlino (il quinto), così come il capitolo della cena in famiglia è lontanissimo da quelli in cui i due protagonisti li vediamo soli, nei momenti di allontanamento che pure questa serie racconta. Sorogoyen, qui come sempre aiutato dal suo insostituibile montatore Alberto del Campo, conduce naturalmente la narrazione verso un eccezionale piano sequenza finale, di estrema complessità formale, in cui non rimangono che i protagonisti in scena, ormai completamente familiari allo spettatore, sufficienti a loro stessi, capaci di reggere tutto il finale sulle loro spalle, tutto il peso emotivo di una lunghissima serie di 460 minuti che sta per giungere al suo epilogo. I privilegi della serialità che Sorogoyen, maestro nell’auto-limitazione del genere, sempre così attento al ritmo, alla suspense, a tenere alta l’attenzione dello spettatore nei suoi film, sa sfruttare al meglio quando consapevolmente compie il passaggio verso forme di narrazione differenti.