Silvio Soldini è sicuramente uno dei registi italiani più atipici e meno aderenti a tutte quelle convenzioni che spesso associamo al nostro cinema. In passato, ha spesso dialogato con altri cineasti europei come Almodòvar (per la messa in scena) e Kaurismäki (per il pudore dei sentimenti) e ha attraversato, nel corso degli anni, tantissimi generi: dai film sperimentali (Paesaggio con figureGiulia in ottobre) girati in stile “guerilla” sulla spinta di autori della new wave americana come Jim Jarmush e Amos Poe, ai documentari, alla commedia, fino, in questo caso, al dramma in costume. Negli ultimi anni, spinto forse da un’attualità sempre meno benevola, il suo cinema è diventato più glaciale, rigoroso, ed è in questo solco che si inserisce anche Le Assaggiatrici, tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino, che racconta la storia - a lungo taciuta - delle donne tedesche precettate dalle SS per assaggiare i raffinati pasti di Hitler nel caso fossero avvelenati. Proteggere con il proprio corpo la vita del Fuhrer in cambio di 200 marchi al mese e il lusso di poter morire eventualmente a stomaco pieno in una Germania affamata dalla guerra. Gia Ieri di Agota Kristof aveva spinto Soldini a realizzare una trasposizione cinematografica di un romanzo in un’altra lingua, con Brucio nel vento, ed è ancora una volta un romanzo di una scrittrice alla base di un film nuovamente in una lingua non sua e che non conosce: il tedesco.

Soldini ha così il modo di tornare su alcuni dei temi a lui più cari, mettendo ancora una volta al centro storie di persone che perdono tutto, che devono convivere con il caos che domina e con l’impossibilità di controllare pienamente la propria vita. Qualcosa che ha a che fare ovviamente con il lavoro di queste “assaggiatrici”, che le espone a un rischio enorme a ogni pranzo e a ogni cena, ma anche con tante altre figure che, in tempo di guerra, non possono prevedere cosa accadrà loro da lì a poco. E poi, come in 3/19, c’è il discorso, man mano che la storia va avanti, svelando alcuni segreti, della responsabilità verso il prossimo, anche quando non c’è un obbligo di legge che impone di aiutare, di soccorrere, ma anzi proprio quando tutto suggerirebbe di farsi gli affari propri. E non è un caso, quindi, che Le Assaggiatrici arrivi dopo il documentario Un altro domani, in cui già Soldini si occupava della violenza domestica sulle donne, volgendosi per la prima volta al passato, alla ricerca del “primo seme” di quella violenza. Una riflessione sul corpo violato delle donne che trova il suo naturale prosieguo in questo suo primo film “period drama”.

Della confessione senile di Margot Wölk, che nel 2021 rivelò al mondo l’esistenza di queste assaggiatrici, l’autrice Rosella Postorino fu colpita dal senso di angoscia di poter morire da un momento all’altro consumando i pasti riservati a Hitler, ma anche dalla riscoperta di una sensualità connessa al cibo, dal piacere di assaporare pietanze che la guerra aveva reso inaccessibili da tempo. C’era la paura. E c’era il desiderio. Nel film di Soldini la convivenza di queste due pulsioni appare però più convenzionale e così anche il desiderio - erotico, sensuale - assume forme più canoniche, rinunciando a indagare le potenzialità cinematografiche di questa malsana relazione con il cibo, che Soldini quasi si rifiuta di inquadrare e mostrare nel dettaglio. La messa in scena, specialmente nelle sequenze attorno alla tavola, è infatti volutamente asfittica e si discosta dal racconto che di quei momenti veniva fatto nel romanzo: di pranzi e cene mistiche e orgiastiche insieme, in cui il battito rallentava, il sangue fluiva, un pezzo di strudel poteva far venire le lacrime agli occhi. Un rituale descritto minuziosamente da Postorino e che anticipava poi quella che la scrittrice chiamava “disforia postcoitale”: il momento nel quale un peso sullo stomaco, anzi sul cuore, cominciava a opprimere le protagoniste, convinte di aver introiettato il nazismo, mangiando il cibo di Hitler, che è nutrimento e contaminazione, bisogno primario, intimità organica, colpa senza redenzione.

Soldini, invece, adotta uno sguardo maggiormente benevolo su queste donne, che subiscono una coercizione che si esercita attraverso qualcosa di necessario e innocente come il cibo, e che trasforma le vittime in complici del Terzo Reich: è la metafora di quanto succede a chi vive sotto una dittatura, ma anche di una condizione femminile più ampia, in cui ci sono sempre colpevolizzazioni secondarie che fanno venire meno i presupposti per concedere alle donne la condizione di vittima. In questo senso, Soldini non indugia sul loro senso di colpa, non le racconta mai davvero “organiche” al regime - ad eccezione di alcune di loro - e invece si concentra maggiormente sull’altro messaggio contenuto nel romanzo: la necessità di riconoscere la fragilità dell’altro identica alla nostra, riconoscerne il dolore, ineluttabile come il nostro, per poter costruire una forma di alleanza.

Hitler raccontava di essere diventato vegetariano dopo aver visitato un mattatoio ed è angosciante pensare alla pietà che ostentava per le bestie quando non ne aveva per gli esseri umani. Ma in realtà, anche in quel caso, non era la compassione a determinare la sua rinuncia, piuttosto l’aspirazione alla forza. A sostegno della sua scelta, spiegava che i cavalli, proprio perché erbivori, erano più forti e veloci dei cani, e che i Romani avevano conquistato mezzo mondo mangiando cereali. Un tema, quello dell’esaltazione della potenza e della forza, quanto mai attuale, così come casuali ma inquietanti sono i rimandi alla cronaca, con il discorso di Hitler dopo essere scampato all’attentato di Stauffenberg nel ’42 che ricorda quello di Trump dopo l’attentato del luglio 2024. Entrambi infatti parlavano di provvidenza divina che li avrebbe portati alla vittoria. Mentre fuori infuria la vicenda storica il film racconta la guerra stando accanto alle donne, vittime della ‘guerra degli uomini’. Soldini, da sempre bravissimo a lavorare non solo sui dialoghi, ma anche e soprattutto sulle immagini e sui suoni, lascia gli avvenimenti storici fuori campo - anche per ragioni di budget - e si affida alla sua maestria di artigiano per far comunque sentire allo spettatore l’avanzare della guerra, lavorando molto sul peso drammaturgico della musica, sui suoni in sottofondo dei treni, degli aerei, delle urla dei soldati. Ma soprattutto sugli stacchi di montaggio, andando spesso a nero per diversi secondi tra una scena e l’altra, come colpi di pistola in una roulette russa. Lo spettatore, ad ogni riemersione dell’immagine, non sa se troverà le protagoniste ancora incolumi.