Nasce dal “tradimento” di un libro dello scrittore marchigiano Luigi Bartolini, il capolavoro del 1948 firmato da Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, Ladri di Biciclette, che in questi giorni torna al cinema in versione restaurata. Un tradimento che non fece piacere all’autore del romanzo che fu fonte di ispirazione per il film, che infatti alimentò una polemica con il regista e lo sceneggiatore culminata con una querela per diffamazione sporta da Zavattini nei confronti di Bartolini in seguito a due velenosi articoli pubblicati dallo scrittore sul trattamento cinematografico della sua opera. Fra gli elementi più evidenti di divergenza tra il romanzo e il film c’è la collocazione temporale della vicenda. Se la narrazione di Bartolini si svolgeva tra il 28 settembre e il 3 ottobre del 1944, il film compie uno slittamento cronologico in avanti, posizionando il racconto alcuni anni dopo la fine della guerra. Si tratta di un dettaglio non trascurabile. Se infatti nel romanzo il furto della bicicletta non è che un esempio dei tanti atteggiamenti truffaldini all’ordine del giorno in un Paese che stava ancora affrontando una situazione emergenziale, nella sceneggiatura del film quell’atto criminoso assume un significato più complesso, non essendo più dettato da una condizione eccezionale (la guerra) che “costringe” a comportamenti estremi, ma da un disagio sociale diffuso che esiste nonostante la ritrovata liberà e la fine dell’emergenza nazionale. Ma è il personaggio del piccolo Bruno, assente nel romanzo, la vera invenzione del film. È impossibile leggere le azioni del padre se non in relazione alla figura del figlio, che si contrappone all’atteggiamento passivo del suo genitore e ricopre un ruolo di “supplente” (fino a diventare l’unica garanzia economica di sopravvivenza per l’intera famiglia).
La bicicletta per Antonio Ricci nel film è l’oggetto da cui dipende la possibilità di lavorare (l’ufficio di collocamento gli offre un lavoro per cui bisogna essere provvisti di un mezzo proprio di locomozione) e quindi la possibilità di sostenere finalmente la famiglia dopo anni di disoccupazione: quando la bicicletta viene rubata è chiaro che il futuro di un intero nucleo famigliare è legato al suo eventuale ritrovamento. Il pittore del romanzo di Bartolini, al contrario, afferma addirittura di possedere un’altra bicicletta oltre a quella che gli è stata rubata. Così la sua avventura per ritrovare l’oggetto assume la connotazione di una “sfida” tra derubato e ladro, per il quale un uomo decide di dimostrare la propria insospettabile abilità in un campo (quello del furto) e la superiorità sui criminali che lo hanno derubato. La ricerca della bicicletta, nel romanzo, assume solo sul finale una valenza tragica, quando invece nel film è chiaro fin da subito che è la disperazione a spingere i protagonisti ad impegnarsi nella ricerca del mezzo.
La bicicletta è un mezzo di locomozione che appartiene ad un momento storico di transizione tra il mondo del lavoro pre-industriale e quello moderno della meccanizzazione (negli anni ’50 ci sarà la diffusione dei motorini e delle macchine, così la bicicletta diventerà un oggetto non più associabile al “lavoro” e all’indipendenza economica). Ma il furto della bicicletta, come se fossimo in un film noir, serve anche come dispositivo formale (non dissimile dal MacGuffin di Alfred Hitchcock) per creare attesa nello spettatore. Se dal momento del furto tutto il film si sviluppa come una ricerca di qualcosa che è stato sottratto, creando “suspense” attraverso il dubbio che la bicicletta possa essere ritrovata o meno, anche nei minuti antecedenti al furto, chi guarda si trova ad attendere che la bicicletta venga effettivamente rubata (il pubblico si aspetta il furto perché già annunciato nel titolo). Antonio Ricci (il cui nome rimanda immediatamente ad un uomo qualunque) emerge all’inizio del film dalla folla di Val Melaina, per poi sparire tra folla dei tifosi nel finale. La sua storia individuale rappresenta una condizione di classe ed è solo una delle tante storie animate dal bisogno di sopravvivenza che potrebbero essere narrate (ad esempio quella dello stesso ladro).
Se Zavattini, come lui stesso affermava, “non voleva più rappresentare la realtà, ma entrarvi”, allora è chiaro che la messa in scena per Vittorio De Sica doveva per forza di cose partire da una comprensione profonda della vicenda narrata, da una vicinanza emotiva verso i suoi personaggi. È forse anche per questo che il critico cinematografico André Bazin arrivò a contrapporre lo stile di De Sica (che tendeva alla “valorizzazione più limpida dell’avvenimento col minimo indice di rifrangenza da parte dello stile”) a quello di Rossellini (la cui regia si poneva invece come “incolmabile ed ontologica distanza” tra il materiale cinematografico e lo spettatore). Una differenza fra i due cineasti sottolineata anche da Martin Scorsese (che al neorealismo italiano deve molto), il quale giudicava Rossellini un regista di “fatti” e De Sica un regista di “emozioni”. Se il sogno dichiarato di Zavattini era quello di poter riprendere ottanta minuti nella vita di un uomo senza alcun taglio, è chiaro che la regia di De Sica (il cui lavoro è inscindibile da quello del suo collaboratore) cerchi per quanto possibile di soddisfare questa esigenza. La sua messa in scena vuole “negare” se stessa, rendersi trasparente alla realtà che rivela, ma proprio per questo non può essere considerata “inesistente”. Per Gilles Deleuze il neorealismo italiano è un cinema popolato da personaggi che “vedono”, non da personaggi che “agiscono” (de voyant, non plus d’actant). L’esempio classico, ripreso anche da Bazin, è quello della scena del risveglio di Maria in Umberto D. (ancora De Sica): la giovane donna entra nella cucina e comincia ad eseguire una serie di gesti meccanici, fino a quando non comincia a piangere nel momento in cui il suo sguardo si posa sul proprio grembo materno. È attraverso l’atto del guardare che il personaggio comprende la sua condizione (e riflette sul fatto che suo figlio nascerà in condizioni di miseria). In Ladri di Biciclette anche il piccolo Bruno osserva sconvolto poco prima del finale il “cambiamento” del padre, al quale non può reagire. È per questa ragione che la figura del bambino assume un ruolo centrale nel neorealismo italiano (e più tardi in Francia con il cinema di Truffaut). Collocato nel mondo degli adulti, il bambino è caratterizzato da una impotenza motoria. Ma è proprio grazie a questa sua impossibilità all’azione che il bambino è anche il più capace di vedere e sentire, di “registrare” le cose che accadono davanti ai suoi occhi (quattro anni prima di Ladri di Biciclette, De Sica aveva girato I bambini ci guardano).
Con Ladri di Biciclette divenne chiaro che la “rivoluzione” del cinema neorealista non fosse semplicemente sociale e tematica, ma formale. La sensazione di assistere ad una successione casuale di avvenimenti, non ordinati secondo alcuno spettro drammatico, non può infatti prescindere dalla presenza di un sistema estetico (anche se invisibile) nel quale questi avvenimenti si inseriscono. De Sica, per usare di nuovo le parole di Bazin, non lavorava semplicemente per “ridurre” ogni evento drammatico a semplice contingenza, perché il suo obiettivo era invece quello di “fare della contingenza la materia stessa del dramma”. Per Zavattini la “de-drammatizzazione” della narrazione era il presupposto per il “realismo” (anche se la realtà rappresentata dal film non viene consegnata allo spettatore già decodificata) e perciò la vita dei suoi personaggi, come quella delle persone reali, non è strutturata come una storia, ma come successione imperscrutabile di eventi. Non è quindi un caso se le emozioni dei personaggi siano spesso veicolate dal loro movimento, dal loro incedere e dal loro passo (per il casting del film De Sica tenne conto proprio delle movenze dei suoi attori non professionisti).
Il ritmo della camminata e le periodiche perdite di direzione costituiscono quel “situational ballet” descritto da Vernon Young che serve al regista per suggerire allo spettatore un cambiamento emotivo nei personaggi attraverso la loro presenza fisica ed il loro posizionamento nello spazio. Immediatamente dopo la scena in cui Antonio schiaffeggia suo figlio all’uscita dalla chiesa viene mostrato un primo piano del bambino che scoppia in lacrime. Lo spettatore crede che Bruno sia ancora al fianco del padre, invece De Sica, attraverso un campo lungo, ci mostra che il bambino si è allontanato dal suo genitore e che ora procede nella sua stessa direzione ma tenendosi distante. Esiste quindi una complessa relazione fra i movimenti di Antonio, i movimenti coreografati delle folle che si radunano e si disperdono ed infine i movimenti di Bruno. Questi spostamenti tracciano delle linee su schermo che si intrecciano e divergono. Il movimento di Antonio, tendente sempre verso il prossimo (impossibile) obiettivo, è un movimento profondamente nevrotico: un segno della sua incapacità di leggere la città e di navigarla.
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