Quando Warren Ellis e Nick Cave si trovarono a lavorare per la prima volta su di una colonna sonora per il cinema (l’occasione fu data da La Proposta di John Hillcoat), decisero di non lasciarsi guidare dalle immagini del film, ma di scrivere la musica esclusivamente sulla base delle loro sensazioni rispetto al materiale che avevano scelto di non visionare. Un metodo che avrebbero poi continuato a seguire nel corso degli anni, sviluppando una capacità tale per cui anche solo una minuscola sequenza di qualche secondo in cui Brad Pitt rotea il proprio revolver diventava sufficiente per comporre la musica di un intero, lunghissimo, film (L’assassinio di Jesse James di Andrew Dominik). Un minuscolo frammento da fissare nella memoria e tenere a mente come suggestione nel corso della fase di composizione. Non è un caso che sia successo lo stesso per questo documentario di Vincent Munier e Marie Amiguet, ambientato nelle montagne innevate del Tibet e che ha come soggetto principale un animale rarissimo che sfugge alle videocamere, che si concede ai loro occhi per qualche istante prima di scomparire nuovamente e spingere i due “esploratori”, un fotografo e un romanziere, a un faticoso vagabondaggio nella speranza di individuarlo ancora. Come per la coppia di musicisti, anche lo spettatore questa volta è chiamato ad amplificare l’attimo e a fare tesoro di un fugace avvistamento, condannato fin da subito a durare meno del suo ricordo successivo. Cercare qualcosa oltre l’ovvio, avere fede nell’apparizione di ciò che non è possibile prevedere se effettivamente apparirà.

Il silenzio delle altre specie garantisce la loro diversità, la loro esclusione da quella umana. “Perché guardiamo gli animali?”, si chiedeva John Berger in uno dei suoi saggi più famosi. Perché l’animale apre nicchie di segretezza che, a differenza di quelle ambientali, nelle caverne, nelle montagne, sotto i mari, si rivolgono specificamente agli umani, costituiscono un mistero che può essere scrutato solo da loro, dalla distanza della propria alterità. Il cinema crea così l’illusione che tutto voglia ricambiare il nostro desiderio di osservare ed essere osservati, che anche lo sguardo animale, sempre obliquo, sempre «ciecamente al di là», possa davvero concedere a noi spettatori il privilegio della centralità e dell’attenzione. È in questo modo che la finzione, la consolazione di una rilevanza che non abbiamo, trova spazio persino in un’opera che sembra basarsi soltanto sulla pura e semplice registrazione del reale. Quello sguardo fra animale e uomo, che potrebbe aver giocato un ruolo cruciale nello sviluppo della società umana e con il quale, in ogni caso, tutti gli uomini hanno convissuto fino a meno di un secolo fa, si è estinto. E il cinema è l’unico strumento che può alimentare la presunzione di averlo finalmente ritrovato.