La Pixar, storicamente restia a realizzare sequel dei propri film, da alcuni anni, e con un’evidente accelerazione dopo l’abbandono di John Lasseter, ha deciso di accettare pienamente le logiche imperanti della serializzazione, degli spin-off e, forse, stando alle ultime indiscrezioni, persino dei reboot. Se è vero però che, lungo i decenni, è stata effettivamente messa a punto una “formula Pixar”, ovvero una serie di regole, di codici e di idee da cui poter attingere per ogni nuovo film, utili a creare esperienze ugualmente inedite e familiari per lo spettatore, è altrettanto vero che non esisteva ancora un corrispettivo di quella stessa formula collaudata per i sequel. Almeno fino a questo momento. Inside Out 2, infatti, pesca un po’ da tutte le varie sperimentazioni - visive e narrative - fatte in precedenza sui sequel fino a questo momento proposti. Il riferimento più evidente è sicuramente quello a Gli Incredibili 2. In entrambi i casi, viene mantenuta pressoché identica l’impostazione iniziale: se i due Gli Incredibili cominciano esattamente alla stessa maniera, con un fan della famiglia che convince i protagonisti a indossare le calzamaglie da supereroi che avevano temporaneamente abbandonato, così in questo secondo Inside Out accade all’inizio, come nell’originale, qualcosa di inaspettato che costringe le emozioni che abbiamo imparato a conoscere nel primo film a lasciare la loro stazione di controllo per avventurarsi negli anfratti più reconditi della mente della bambina di cui si prendono cura. In entrambi i casi, ancora, avviene però un fondamentale cambio di protagonista. Ne Gli Incredibili 2 non era più Bob il personaggio principale, quello su cui si reggeva il film, ma sua moglie Helen. E così in Inside Out 2 non è più Gioia il centro narrativo, ma un nuovo personaggio: Ansia. Se nel film di Brad Bird questo cambio permetteva anche una sterzata nel tipo di azione che veniva messa in scena - più dinamica e meno muscolare - quindi, conseguentemente, anche nel ritmo e nelle inquadrature, in questo secondo capitolo di Inside Out il passaggio di testimone si trascina con sé una maggiore instabilità a livello di trama, ma anche nelle riprese (il riferimento citato dal regista, per quanto lontano possa sembrare, è quello di Uncut Gems dei fratelli Safdie). A livello tecnico, invece, il team ha scelto di utilizzare nuovamente un aspect ratio (2:39:1) già sperimentato in Toy Story 4 e poi praticamente abbandonato: un formato pensato appositamente per il cinema, per gli schermi più grandi, in contrapposizione anche alle precedenti scelte industriali che hanno impedito l’uscita di molti film Pixar in sala, preferendo invece la distribuzione direttamente in streaming. Come negli ultimi film dello studio, infine, e specialmente in Toy Story 4, alla coerenza narrativa si preferisce l’umorismo, sacrificando un minimo di logica interna sull’altare della gag e della risata.

L’aggiunta delle nuove emozioni costituisce quindi un cambio radicale di paradigma: se dal 1975 al 1995 la scienza che le studia si è limitata effettivamente all’approfondimento delle cinque “primarie” (Rabbia, Paura, Tristezza, Disgusto e Gioia), con il passare del tempo si è anche cominciato a tenere in considerazione l’impatto delle cosiddette “emozioni sociali”, quelle che hanno a che vedere con le aspettative che gli altri ripongono in noi, con il costante confronto con chi ci sta attorno, con la pressione sociale che si comincia ad avvertire proprio negli anni dell’adolescenza. Questo, a livello cinematografico, consente un nuovo equilibrio tra le sequenze ambientate dentro la testa di Riley e quelle nel mondo che sta fuori. Se la paura ha a che fare con il pericolo fisico immediato, l’ansia è la proiezione di ciò che potrebbe andare storto in futuro. Il suo compito è quello di immaginare potenziali intoppi e attivarsi per prevenirli, che poi è anche quello di chi lavora nel cinema d’animazione, spesso con tempi lunghissimi che possono stravolgere ciò che era stato inizialmente pensato nelle fasi preliminari di ideazione. In qualche modo, quindi, Ansia è anche, in chiave metatestuale, una proiezione del colosso americano dopo un periodo difficile che ne ha minato l’assoluto predominio nel campo del cinema d’animazione di massa. Se i “classici” Pixar sono oggetti levigatissimi, meticolosamente limati, in questi ultimi lavori c’è sempre un granello di sabbia che ne inceppa il meccanismo, li mette in disordine, rendendoli paradossalmente perfetti per raccontare favole sotto stress e disagio esistenziale. Ansia, in questo caso, è un’antieroina, in alcuni momenti persino un’antagonista, che è uno dei grandi tabù dell’animazione contemporanea, che ha rifiutato da tempo la presenza di villain totalmente e irrimediabilmente malvagi. Qualcosa di difficile da controllare, potenzialmente fatale, ma che comunque conferisce al film una sua febbricitante vitalità, quell’agitazione che lo rende poi così affascinante.

Se già il primo Inside Out era la summa di tutta la poetica Pixar, che ha sempre rivendicato il ruolo centrale dell’audiovisivo nel conoscere la verità e arrivare davvero in fondo alle cose (ovvero l’unica maniera per capire il mondo è quella di guardarlo attraverso uno schermo, come fanno le emozioni nella mente di Riley), questo secondo capitolo compie un passaggio in più, lavorando benissimo sulla commistione di stili d’animazione differenti: la bidimensionalità dei primi cartoni animati per la televisione, la grafica poligonale dei vecchi videogiochi di inizi anni 2000 e persino la stop-motion fatta con i ritagli di carta. Tutte tecniche “datate” che aiuteranno, in maniera diversa, i protagonisti ad affrontare il loro viaggio, approdando, alla fine, ad una gemma digitale (la coscienza di sé, per Riley) dalla composizione sempre cangiante, in costante adattamento, come un algoritmo che impara ad analizzare il contesto e a mutare di conseguenza. La stessa scintilla che animava i modelli dei due protagonisti del precedente (e sottovalutatissimo) Elemental: personaggi parzialmente guidati da un’intelligenza artificiale in un mondo invece ideato, realizzato e perfezionato dalla creatività umana. Un nocciolo di coscienza digitale, algoritmica, anche nel più umano dei luoghi: la mente. Sono tutti piccoli dettagli che ci dicono, oggi, che forse un cinema d’animazione come quello della Pixar di vent’anni fa non è più possibile e che il controllo totale sulla propria opera animata è ormai un’utopia. Tanto vale accettare il caos, l’indeterminazione, la contaminazione. L’Ansia.