Il nuovo film di Mike Leigh è un lungo susseguirsi di parole, di discorsi, di appelli prima sussurrati e poi gridati. Le parole vengono utilizzate non come banale elemento di un dialogo o di un monologo, ma come componente essenziale del mezzo filmico che da esse viene trapassato, modificato e restituito al pubblico. Tutti i personaggi di Peterloo sono prima di tutto idee fatte carne, uomini e donne la cui fisiognomica è determinata dalla loro retorica. L’enfasi con la quale i personaggi pronunciano ogni frase cambia il loro aspetto, la fisionomia del loro volto. L’ideologia comporta una modificazione nel corpo che la accoglie, nel viso che la veicola. Per questo tutto il film di Mike Leigh è un film “mandibolare”: le mandibole si contraggono e si distendono a seconda di ciò che si sta dicendo e a seconda della forza con la quale si sta parlando, si muovono velocemente per aizzare la folla e rallentano per masticare il poco cibo a disposizione (si mangia lentamente per non avere ancora fame dopo).
È per questo motivo che la parola, anche se scritta, deve passare sempre prima per la sua riproduzione orale, “meccanica” per il lavoro che i muscoli devono compiere per riprodurne il suono. Ogni lettera verrà dettata, ogni articolo di giornale esposto a voce. Ma non si tratta di un banale trucco cinematografico (rendere noto al pubblico il contenuto di quelle lettere e di quegli articoli), bensì di una necessità dei personaggi, che si appropriano di quelle parole attraverso l’esercizio facciale, attraverso lo sforzo fisico (che, come gli altri, necessita di un allenamento) che comporta la loro pronuncia.
Così anche il mezzo filmico sembrerà risentire della retorica che lo attraversa, cambiando di tono (non sempre in maniera convincente) e modificandosi davanti agli occhi dello spettatore per consegnare al meglio il suo “messaggio” e svolgere la sua funzione (retorica, per l’appunto). Se Mike Leigh nel precedente Turner metteva in scena gli ultimi 25 anni di vita del pittore de La Valorosa Téméraire frammentando l’unità temporale in una serie di momenti dalla durata irrilevante, adesso con Peterloo mette in scena un evento che si consuma in pochi minuti dilatando le fasi che lo precedono.
I nordisti lontani dal cuore dell’Impero britannico sembrano avere la foga dei cantanti underground stanchi di suonare nei garage e che sognano di riempire gli stadi. Il film infatti si “allarga” progressivamente, passando dalle riunioni in cui ci si alza in piedi per parlare, alle piccoli pedane improvvisate e poi infine al “palco”, dal quale si è in grado di arrivare finalmente a tanti, ma anche di marcare la distanza tra chi ci sale e chi rimane sotto, tra chi prende la parola e chi rimane sullo sfondo. Eppure anche in questo vero e proprio kolossal sembra emergere la maniacale ossessione per le piccole stranezze umane che da sempre caratterizza il cinema di un regista abituato a lavorare “in piccolo”. I singoli individui emergono dalla massa, si rendono distinguibili e riconoscibili, per via delle loro idiosincrasie, di un determinato tic o di un comportamento eccentrico che li identifica.
Il “period drama” di Leigh non è però “falso storico” come quello di Lanthimos, in cui già l’ambientazione suggeriva una distorsione che svelava la volontà di parlare di modernità attraverso il passato. Il film di Mike Leigh è invece credibile nella sua ricostruzione, storicamente accurato perché dotato di una intrinseca capacità di “attualizzazione”, che avviene senza che il regista intervenga a sottolineare rimandi con il presente, suggerendo comparazioni o somiglianze con recenti fatti di cronaca. Peterloo è un’opera in costume che si rende spontaneamente contemporanea, che autonomamente è in grado di “traslarsi” dal 1819 al nostro tempo.
La lunghezza del film sembra voler contrastare la “sintesi” operata dal suo titolo, quel Peterloo utilizzato dai giornalisti per descrivere con una espressione concisa e brillante quella giornata di violenza e tutto ciò che l’aveva preceduta. Fuori campo si organizza la repressione di una manifestazione che fin dagli inizi ci viene presentata come assolutamente pacifica (chi la organizza fa di tutto per far desistere i più facinorosi dal partecipare). Il didascalismo lascia spazio al lirismo delle immagini proprio nel momento in cui ci si aspetterebbe il massimo della verbosità. Le parole di Henry Hunt determineranno un massacro, ma da quel massacro verranno prodotte ulteriori parole e nuovi mezzi per diffonderle (all’indomani di quella strage verrà fondato il The Guardian).
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