Quello che doveva essere un “adattamento” in live-action del classico Disney del 1941, nelle mani di Tim Burton diventa un sequel che risolve la storia che tutti noi conosciamo nei primi trenta minuti e la usa come “innesco” per un altro film, nuovo e diverso rispetto al Dumbo originale. Il fine ultimo di questa operazione cinematografica sembra essere quello di trasformare una storia di successo, che era ciò a cui i protagonisti dovevano tendere per essere felici, in una il cui traguardo finale non è più la semplice conquista della celebrità. Così, nel remake di Tim Burton, lo spettacolo del piccolo elefante (assieme a tutto il circo che lo ospita) viene acquistato da un colosso dell’intrattenimento che lo vuole inserire nel suo enorme parco divertimenti (Dreamland) per sfruttarne la crescente fama. Il perfido impresario interpretato da Michael Keaton, che vuole rendere Dumbo un marchio spendibile sul mercato, aumentando le proprie possibilità di profitto, non agisce in maniera diversa dalla Disney, che vuole oggi sfruttare qualcosa di già ampiamente apprezzato e conosciuto, ovvero i suoi vecchi film animati, ampliandone la mitologia con degli adattamenti moderni e dal respiro più ampio. D’altronde la storia degli ultimi quindici anni della compagnia americana è riassumibile in una lunga sequenza di acquisizioni mirate (la Pixar, la Marvel, la Lucasfilm e adesso la 20th Century Fox) e ponderate.

È chiaro che in questo film che gioca tutto sull’analogia metacinematografica di un piccolo studio indipendente che viene fagocitato da una grande multinazionale, emergono tutte le contraddizioni della carriera di Tim Burton, definito (e auto-definitosi) “outsider” ma spesso coccolato dalle grandi major hollywoodiane (in alcuni casi con risultati poco gratificanti sia per il regista che per i produttori). I personaggi del remake di Tim Burton sono artisti che hanno sempre lavorato in maniera autonoma, superando mille difficoltà economiche. E, proprio come lui, si trovano ad essere presi, nel momento di maggiore successo, sotto la custodia di una grande compagnia che promette loro migliori possibilità economiche per rifare essenzialmente lo stesso spettacolo di prima, ma in una versione più grande e con più soldi.

Per tutta la prima metà del film, Tim Burton sembra rinunciare al suo riconoscibile tono “felliniano”, all’immagine del circo come luogo di gioiosa vitalità, in cui la collettività è in grado di sopperire alle mancanze individuali. Quasi tutti i personaggi del film sono “monchi” di qualcosa (Colin Farrell senza un braccio, Danny DeVito senza un fratello, Dumbo senza la madre) ma difficilmente riescono a compensare queste loro deficienze attraverso l’unione con gli altri. Tim Burton li inquadra quasi sempre singolarmente, isolandoli nell’inquadratura e rifiutando quella visione corale propria delle attività circensi. Solo sul finale, quando saranno chiamati a “sabotare” il circo, i personaggi comprenderanno la necessità di agire in gruppo, di comportarsi finalmente come un “ensemble”. Il legame fra i membri della compagnia si rafforzerà paradossalmente proprio nel momento in cui questi dovranno unire le forze per distruggere il loro lavoro, boicottandolo dall’interno.

Così anche Tim Burton riunisce tutto il suo “circo” di attori storici, a marcare ancora più chiaramente il parallelismo fra le peripezie del gruppo di circensi e quelle che hanno caratterizzato la sua carriera. Burton si nasconde dietro ad una storia Disney molto canonica, riduce al minimo l’utilizzo dell’immaginario gotico che lo ha reso famoso ed emerge, come i suoi personaggi, solo sul finale, che svela la chiave di lettura del film: l’obiettivo da raggiungere non è quello del successo, ma la comprensione della propria dimensione umana. Gli umani di questo remake non sono banalmente i cattivi che maltrattano gli animali, perché la sola alternativa al circo con gli animali è proprio il circo con gli umani, in cui sono loro ad esibirsi con le proprie capacità. Solo quindi attraverso le abilità degli umani, attraverso il loro talento e la loro passione, è possibile “liberare” gli animali e permettere l’esistenza di un intrattenimento che non ne preveda lo sfruttamento. Se quindi il film riesce a tratteggiare verso la conclusione una chiara visione di umanità (che, come sempre avviene nel cinema di Tim Burton, è alternativa a quella dei bravi e dei perfetti, quindi bulli e cattivi) nella quale credere e sperare, non è altrettanto efficace nel tirare le fila delle sottotrame dedicate ai singoli personaggi, i quali seguono un arco narrativo semplicemente abbozzato e in alcuni casi inesistente.

Il remake di Tim Burton sembra costantemente attraversato da una tensione fra ciò che vorrebbe essere e ciò che è costretto ad essere. Le stranezze del film originale vengono “razionalizzate” (la visione degli elefanti rosa non è più dovuta all’alcol) e le possibili ambiguità eliminate (i corvi che parlavano con accento afroamericano nel film del 1941) per necessità contingenti dettate da una mutata sensibilità e attenzione verso determinate tematiche. Quello che però rende riconoscibile il cinema burtoniano non è (solo) l’immaginario visivo, quello fatto di tagli sulla pelle e nebbia nei boschi tetri, ma ciò che quell’immaginario rappresenta, ovvero la costante ribellione contro la dittatura di un pensiero che condanna la diversità anziché coltivarla come valore, contro una vita sempre “corretta” e dai colori pastello. Così il circo di Dumbo (sia quello a conduzione famigliare della prima metà, che quello retro-futuristico della seconda) non vibra delle sue caratteristiche tonalità cromatiche vivaci, ma è “spento”, desaturato, come i personaggi che lo popolano, che coltivano il ricordo lontano del trionfo pur non avendo ancora mai davvero sperimentato la tragedia. Sembra quasi che i colori accesi tipici del circo non siano qualcosa di scontato, un dettaglio che costituisce la scenografia, ma qualcosa da meritare e conquistare (l’immagine di un bellissimo cielo viola nel quale volare ce lo farà capire fin dall’inizio).

Dumbo di Tim Burton è un film di elefanti senza madri, di cowboy senza cavalli, di militari senza braccia, di trapezisti senza reti, di fratelli senza fratelli e di circhi senza animali. Ma la “mancanza” non è solo un elemento che muove i suoi personaggi, bensì una condizione che i suoi ultimi film riconoscono e accettano (la mancanza di un reale controllo sulle proprie opere). Il regista americano sembra essersi definitivamente adeguato a logiche produttive più grandi di lui, con la consapevolezza che non potrà mai esistere, all’interno di questi colossi dell’intrattenimento, una libertà artistica totale. A Tim Burton non resta quindi che “sabotare” il suo stesso film, lasciando al piccolo elefante la possibilità, a lui negata, di poter volare finalmente senza vincoli esterni.