Per la fortuna di tutti noi Terry Jones nel 1961 scelse di iscriversi ad Oxford. Scegliendo malauguratamente l’altra opzione a sua disposizione (Cambridge!), non avrebbe mai conosciuto le due persone che gli avrebbero cambiato definitivamente la vita (e attraverso la sua, anche la nostra): Michael Palin e Geoffrey Chaucer. Jones, comico e rigoroso medievalista, nel 1980, quindi sette anni dopo la “pace con onore” di Richard Nixon, pubblicò un testo che spiazzò i principali studiosi di Chaucer. Un testo in cui si affermava che la famosa descrizione del “cavalier gentile” fatta nel prologo dei Racconti di Canterbury fosse stata in realtà ripetutamente travisata nel corso degli anni. Il cavaliere di Chaucer, per Jones, non aveva nulla del nobile “amor cortese”, ma solo la grettezza dei mercenari. Quello che per anni era stato associato al perfetto esempio di “cavalleria” divenne, nell’analisi di Jones, il ritratto di uno spietato criminale attraverso il quale Chaucer cercava di mettere in guardia il lettore dagli orrori della guerra. Terry Jones, uno dei comici più famosi del mondo, restituì così serietà e complessità politica all’umorista e cantastorie Geoffrey Chaucer.
Chaucer non metteva nero su bianco la sua indignazione come faceva Langland, né era pedagogico come Gower. Il suo umorismo demenziale non comprometteva la credibilità delle sue argomentazioni, ma anzi era l’unico strumento a sua disposizione per disinnescare l’ira e la superbia che producono la violenza. Così Jones utilizzava (anche nei suoi film) il contesto medievale per porsi alla distanza necessaria per parlare correttamente del presente, concedendosi nei suoi scritti paragoni arditi come quelli fra Adolf Hitler (negazionista dell’Olocausto) ed Enrico II (che invece negava l’uccisione di Thomas Becket). Rifiutando, da buon medievalista, l’utilizzo dell’aggettivo “medievale” come sinonimo di arretratezza o crudeltà, puntava il dito contro l’assurdità del contemporaneo e la sua ferocia. Geoffrey Chaucer era un Monty Python ante litteram e gli episodi del Flying Circus diretti da Jones seguivano la lezione stilistica dei Racconti di Canterbury: episodi indipendenti ma in costante comunicazione, consapevoli di se stessi e del proprio ruolo nel contesto più ampio della sequenza.
Come scriveva Robert A. Rosenstone, professore emerito al California Institute of Technology, il passato messo in scena attraverso la lente deformante del cinema non è lo stesso che ci viene consegnato dalla studio accademico dello stesso, eppure è Storia se con questo termine intendiamo l’analisi degli effetti ancora persistenti degli eventi passati. Monty Python e il Sacro Graal fu girato in meno di sei settimane con un budget risibile messo insieme grazie al contributo di rock band come Led Zeppelin, Pink Floyd e Jethro Tull. Diretto da Terry Jones e dall’allora fumettista Terry Gilliam (alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa), il film teneva in grande considerazione il cinema di Pier Paolo Pasolini e cercava di ricreare “il tempo, lo spazio e la sporcizia”. Non a caso anche Monty Python e il Sacro Graal, nel suo modo di intrecciare storie inizialmente autonome e nelle continue interruzioni della narrazione, faceva tesoro della lezione di Chaucer.
Il racconto “arturiano” dei Monty Python è ufficialmente ambientato nell’Anno Domini 932, ma il periodo storico sembra in realtà contenere in sé elementi caratteristici del sesto, dodicesimo e quattordicesimo secolo. D’altronde a Jones e Gilliam non interessava rappresentare il passato, ma la percezione che si ha dello stesso millenni dopo, nonché le contraddizioni che si generano nell’includere secoli differenti in un unico periodo storicamente coerente (e pretendere anche di studiarlo e comprenderlo in questa maniera). Se i gruppi di flagellanti provengono dal dodicesimo secolo, la descrizione della peste si rifà a quella del Decamerone di Boccaccio (quindi quattordicesimo secolo). I titoli di testa in uno pseudo svedese omaggiano Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, ma il riferimento può essere esteso a tutta la “traduzione” cinematografica europea del Medioevo, operata da Bergman come dai suoi colleghi francesi Eric Rohmer (Perceval ou le Conte du Graal, 1965) e Robert Bresson (Lancelot du Lac, 1974).
La rappresentazione storica alterata attraverso la parodia ci parla del modo in cui la storia viene percepita, studiata e tramandata. Il lavoro di Jones mette in discussione la “stereotipizzazione” del passato medievale e l’accettazione acritica dei luoghi comuni. Così un film demenziale come Erik il vichingo può stupire sia per l’assurdità delle trovate comiche che per il rigore con cui tratta la mitologia norrena. Terry Jones era un intellettuale, un insegnante e un rispettato accademico. Ma per la fortuna di tutti noi era anche “a very naughty boy”.
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