Per riuscire nella difficile impresa di fondare una nuova mitologia cinematografica, gettando le basi per un cinema a metà fra quello preistorico e quello “storico” propriamente detto, Matteo Rovere si è affidato ad un direttore della fotografia in grado di cambiare radicalmente i film ai quali lavora. Questo direttore della fotografia è Daniele Ciprì che, ne Il Primo Re, segue l’insegnamento di Emmanuel Lubezki (il paragone verrebbe facile con The Revenant di Iñárritu, ma lo studio della luce ricorda più quello dei film di Terrence Malick) ed utilizza la luce naturale per illuminare gli ambienti delle riserve naturali dell’Aniene, di Tor Caldara, di Decima Malafede e del Circeo, la selva di Circe e il lago dei Monaci. Le paludi laziali (un luogo che non ha alcuna precedente rappresentazione cinematografica dalla quale attingere) illuminate da Ciprì sono allo stesso tempo mistiche ed irreali, fangose e terrene. Il viaggio attraverso i boschi di uno sparuto gruppo di uomini diretti verso una nuova terra è avvolto nella nebbia e nel mistero. Solo la violenza, che invece viene ripresa sempre in maniera chiara, sembra essere in grado di squarciare la coltre impenetrabile che si pone davanti ai personaggi, rendendone faticoso il cammino.

Quello di Matteo Rovere è un cinema di violenza che ha fra i suoi modelli principali quello di Mel Gibson: non solo i protagonisti, come ne La Passione di Cristo, parlano nella lingua filologicamente più credibile, cioè il proto-latino, ma impongono il loro potere sugli altri loro simili con la violenza e la brutalità degli indigeni di Apocalypto. Eppure il regista romano non vuole suscitare l’eccitazione nello spettatore attraverso l’esibizione della violenza, ma decide invece di dilatare i tempi come avviene nel cinema violento contemporaneo di Refn. Proprio per questo motivo, Il Primo Re, perfetto nella sua prima metà, per il modo in cui non indugia sulle scene principali, ma lascia che la sua narrazione proceda per piccoli momenti, minuscoli screzi ed insignificanti ripicche, perde un po’ di unicità quando comincia a porre un’enfasi eccessiva sulle “scene chiave” che anticipano il finale.

Come Apocalypto non era davvero un film sui Maya e sulla loro civiltà, ma sulle origini animali e tribali degli esseri umani, così Il Primo Re sembra voler usare i propri personaggi (quelli principali e quelli secondari) per declinare in maniera sempre diversa il tema della religiosità, che viene vissuta differentemente innanzitutto dai due fratelli protagonisti (Romolo ha una concezione metafisica dell’esistenza, a differenza di Remo) e poi da tutti gli altri comprimari che decideranno di agire (e di non agire) per non disonorare il volere dei loro dèi. Chi guarda percepisce questa presenza “esterna” attraverso le immagini, come avveniva in Silence di Scorsese, che pongono lo spettatore in uno stato di costante “attesa” verso qualcosa che sembra essere sempre lì sul punto di manifestarsi e che invece si nega alla vista (del pubblico e dei personaggi). Il film trova i suoi momenti migliori quando i protagonisti, motivati da una forza superiore che non vedono ma rispettano e riconoscono, si impegnano con tutto il loro ardore per compiere il “destino” che sentono proprio.

Essendo un film che si pone a cavallo fra due diverse epoche e due diversi modelli cinematografici (ovvero secoli dopo l’uomo primitivo e secoli prima della nascita dell’Impero Romano), gli uomini di Rovere non vivono più in completa simbiosi con la natura ma non hanno ancora affermato definitivamente il loro dominio su di essa. Questo è evidente nel loro rapporto con l’acqua, che in alcuni momenti è fondamentale per la sopravvivenza, ma in tanti altri rappresenta un ostacolo sul loro percorso (quando i guerrieri raggiungeranno le rive del Tevere, la loro prima reazione sarà quella di timore).

Il Primo Re è quindi un film impeccabile dal punto di vista tecnico, che sceglie di non compiacere immediatamente lo spettatore, ma di mettere in scena una vicenda di violenza che appare come antiepica e sommessa. Ed è per questo motivo che l’opera di Rovere mostra il fianco nel momento in cui decide di “caricare” la sua narrazione. Nelle sequenze topiche, persino Alessandro Borghi, che per tutto il film cerca di diventare altro da sé, utilizza tecniche di recitazione che il pubblico già conosce, adottando movenze e toni di voce già sperimentati altrove (così come la colonna sonora, che nella prima metà funge da brillante contrappunto alle immagini, sul finale assume un ritmo banalmente incalzante).

Il linguaggio arcaico ed indecifrabile dei personaggi non assume il lirismo di quello utilizzato da Franco Piavoli in Nostos, ma serve uno scopo diverso, ovvero immergere chi guarda in un ambiente coerente (come quello del cinema di Gibson) che viene però messo in scena attraverso lo sguardo deformante di un misticismo che permea tutto il film. Al netto di tutti i difetti, Il Primo Re setta un nuovo standard per l’industria cinematografica italiana, alzando l’asticella non solo delle ambizioni ma, finalmente, anche della qualità dell’esecuzione.