A descriverlo, Gunda, il nuovo lungometraggio del russo Viktor Kosakovskiy, pare una parodia del cinema intellettuale: un film in bianco e nero senza esseri umani e senza parole, in cui nessuno parla perché gli unici esseri viventi in campo sono degli animali (una scrofa, delle mucche, una gallina con una sola gamba). In teoria sarebbe un documentario, ma nella pratica è qualcosa di totalmente diverso: è composto da immagini reali e non “messe in scena”, non legate da una trama o da un intreccio di finzione, ma allo stesso tempo caratterizzato da una cura estetica e da un lavoro sul sonoro (dichiaratamente falso e ritoccato) che lo proiettano su un altro livello, che non è quello della documentazione, bensì quello della trasfigurazione della realtà in qualcosa di differente.
Kosakovskiy conferisce al sensibile un ruolo chiave nel suo cinema, poiché esso è esattamente «l’evento di prossimità e non di sapere». La “sensazione” è quindi un concetto significante, originario, che non possiede una funzione simile al «pensiero che pensa qualcosa». Da intendere come “l’accadere di un contatto” e, per questo, realizzata innanzitutto attraverso il senso del tatto e la vicinanza ai soggetti inquadrati. Il sensibile non si pone così in opposizione al razionale, non costituisce quella dimensione che la riflessione può arginare e dominare o il negativo che la conoscenza riordina nel sapere. L’animale del film è come il Volto di Emmanuel Lévinas: la presenza viva dell’Altro che costantemente mette in crisi le varie forme con cui si tende a farlo rientrare nel già noto, nelle proprie categorie di pensiero. Questa relazione è perciò sempre non-sapere, stupore, e il soggetto osservato esiste prima ed indipendentemente da qualsiasi sistema di riferimento.
Ma se la sensibilità si riferisce al contatto fisico, la prossimità è il movimento che conduce ad esso. L’evento dell’avvicinarsi all’Altro, come la sensibilità, avviene sempre «senza intenzione», eppure, in senso tecnico-cinematografico, implica per forza di cose un’esclusione dal campo del visibile. Per questo alcune informazioni sugli animali ripresi da Kosakovskiy vengono nascoste dal progressivo avvicinamento della macchina da presa al soggetto e si rivelano solo successivamente: le etichette per la macellazione, così come le recinzioni che precludono la possibilità di essere liberi. Il nome dell’animale protagonista, “donna guerriero”, lascia il posto ad una concezione della maternità che, pur essendo emblema dell’accoglienza nella dimora, è dévisagée, senza volto, caratterizzata dal fatto di sottrarsi alla luce, e per questo – anche in piena luce – di presentarsi come mistero.
Lo sguardo attraverso il quale Kosakovskiy guarda i suoi animali è un evento non sincronico. È già di per sé linguaggio, espressione e contatto: nell’immediatezza della relazione etica non si instaura una sintesi appercettiva, ma è suscitato un senso, una significazione che è già dentro l’accadere della visione. Se è vero, parafrasando ancora Lévinas, che “la vulnerabilità fa da ponte tra l’elaborazione fenomenologica della sensibilità e della prossimità”, allora la rivelazione della vulnerabilità in Gunda pone lo spettatore come il soggetto etico che risponde all’imperativo morale di assumersi la responsabilità dell’Altro.
Non è quindi strano che il successo americano e lo status che questo film ha conquistato dal suo primo passaggio alla Berlinale ad oggi (fino ad essere acquistato dalla Neon, società che ha distribuito in America film come I, Tonya, Parasite, Vox Lux, Honeyland) derivino dal suo essere in maniera indiretta una grandissima parabola vegana. Era infatti da parecchi anni che Viktor Kosakovskiy cercava di mettere insieme il budget per il progetto e ci è riuscito solo quando Joaquin Phoenix ha deciso di accettare l’Oscar con un discorso animalista che l’ha reso il vegano più noto del pianeta. I co-produttori hanno fatto di tutto per raggiungerlo e lui, viste le prime immagini e capito il punto del film, l’ha immediatamente appoggiato diventandone produttore esecutivo. Eppure la rivendicazione morale non è mai esplicita, ma determinata da un modo di mostrare le cose che sfugge all’intenzionalità dello sguardo oggettivante, che si impone al punto da trasformare il nominativo in accusativo: le immagini del film diventano le prime accusatrici di chi le guarda e segnano il passaggio dalla soggettività alla soggezione.
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