“Dobbiamo credere in Alfred Hitchcock? ”. Era la domanda che si poneva André Bazin il 17 gennaio 1952 con un articolo su L’Observateur. A distanza di 66 anni dalla pubblicazione di quel pezzo, Gli Uccelli, uno dei film più famosi ed apprezzati del maestro del brivido, torna in sala, in versione restaurata, per rispondere (se mai ce ne fosse ancora bisogno) a quel dubbioso interrogativo. Bazin prendeva atto di una sostanziale differenza tra le opere hitchockiane e quelle prodotte dalle avanguardie dei suoi anni. Se Bresson e Renoir riuscivano a dire tanto con “meno cinema”, Hitchcock utilizzava il virtuosismo tecnico per servire la sua narrazione. È per questo che, con ogni probabilità, anche Robin George Collingwood avrebbe classificato la maggioranza dei film di Hitchcock come “arte cosiddetta”, che ha il suo senso (unico ed ultimo) nell’intrattenimento del pubblico. Ma il grande cineasta inglese avrebbe ammesso con orgoglio la natura “ricreativa” dei suoi film. Nella ormai celebre intervista a François Truffaut, il regista afferma: “È una grande soddisfazione per me utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione di massa. In Psyco, ad esempio, non è un messaggio che incuriosisce il pubblico, non è una grande interpretazione a sconvolgerlo, ciò che lo commuove è il film puro”. Un’ammissione di “colpevolezza” di un’arista che credeva che la sola cosa importante in un’opera cinematografica fosse utilizzare “tutto ciò che è puramente tecnico per far urlare chi guarda”. A voler azzardare un paragone, quindi, Hitchcock utilizzava il mezzo artistico come faceva Shakespeare prima di lui (molte delle cui opere vennero classificate proprio da Collingwood come “arte ricreativa”), cioè per ottenere una reazione dai propri spettatori.
Hitchcock raggiunge il suo obiettivo, avere un effetto sul pubblico, attraverso il montaggio, la fotografia, la colonna sonora, ma anche grazie all’utilizzo quasi invisibile di minuscole trovate visive in grado di dare un senso differente alla scena. Ne Gli Uccelli, quando Jessica Tandy va via col camioncino dopo aver trovato il cadavere dell’agricoltore, del fumo fuoriesce in maniera visibile e poco realistica dal tubo di scappamento (differentemente, quando arriva sulla scena del crimine, niente fumo dal veicolo). Si tratta di uno stratagemma che Hitchcock riprende da un suo film di vent’anni prima, L’Ombra del Dubbio: dal camino del treno da cui scende lo zio Charlie esce un denso fumo nero che copre tutto il marciapiede della stazione, mentre quando la locomotiva riparte il fumo nero non c’è più. Elementi impercettibili di messa in scena che contribuiscono però ad accentuare (o a prolungare, come nel caso de Gli Uccelli) l’emozione che lo spettatore sta provando, “indirizzandolo” verso uno stato d’animo che è lo stesso regista a decidere e ad imporre. Creare una reazione di paura nella gente quando gli uccelli stanno assediando la casa, senza che questi siano però visibili, è solo ed esclusivamente una questione di montaggio. Come rendere su schermo il panico di persone che stanno scappando da qualcosa che però non vediamo? Attraverso le differenti inquadrature: la madre e la ragazzina scappano per cercare un riparo ma in direzioni diverse, con Melanie Daniels ripresa intenzionalmente dalla distanza (un trucco improvvisato sul set il giorno delle riprese).
Ne Gli Uccelli, come in altri suoi capolavori, il regista inglese risolve dei problemi legati al tempo della narrazione, manipolando lo spazio. Nella scena in cui Tippi Hedren viene colpita da un gabbiano, il regista abbandona la soggettiva per adottare un punto di vista oggettivo, mostrando il gabbiano prima che colpisca la ragazza affinché il pubblico sia cosciente di ciò che sta per accadere. È lo stesso concetto della famosa scena dell’aereo in Intrigo Internazionale: non si lavora sul tempo, ma sullo spazio. Se ne Gli Uccelli non viene rispettata la regola del punto di vista per giustificare la traiettoria del gabbiano (che sarebbe stata altrimenti troppo rapida), così in Intrigo Internazionale viene mostrato l’arrivo dell’aereo ancora prima che Cary Grant lo veda per rendere chiaro allo spettatore quello che sta avvenendo su schermo. Avviene esattamente il contrario, cioè un trasferimento dal punto di vista oggettivo a quello soggettivo, quando lo sceriffo arriva nella casa dopo il primo attacco degli uccelli nella camera. La scena comincia con l’intero gruppo di personaggi (lo sceriffo, Mitch, Melanie, la madre) dal quale viene poi isolato il volto della madre. A questo punto la regia utilizza il punto di vista di Melanie, in cui comincia a montare una inquietudine per la condotta strana della madre che lei sta osservando.
Un altro esempio che perfettamente sintetizza il particolarissimo lavoro che Hitchcock compie sullo “spazio” è quello della scena dell’incendio nella città, mostrato attraverso una inusuale inquadratura dall’alto che in qualche modo sembrerebbe dar conto del punto di vista degli uccelli stessi. Quella inquadratura dall’alto serve ad Hitchcock non solo per mostrare la topografia esatta della baia di Bodega o l’inizio della discesa dei gabbiani sulla città, ma soprattutto per omettere le operazioni d’estinzione dell’incendio (poco interessanti per chi guarda). Il concetto è semplice: ci si tiene a distanza per mostrare le cose più rapidamente e ci si avvicina per allungare i tempi, come invece avviene nella scena del soccorso del benzinaio ferito dal gabbiano (in quel caso al regista serve dilatare la durata della scena per creare suspense sulla scia di benzina che si sta riversando sulla carreggiata).
Il capolavoro del 1963 chiarisce bene anche la nozione di “suspense hitchcockiana”, che non è quasi mai legata ad un mistero da risolvere (che secondo il regista crea una “curiosità priva di emozione”) ma che si può produrre nello spettatore solo quando quest’ultimo è a conoscenza di “tutti gli elementi in gioco”. Ciò significa che il pubblico deve essere a conoscenza di qualcosa che il personaggio ancora non sa. Spiegare questo concetto con le parole dello stesso Hitchcock può essere utile: “C’è una bomba sotto il tavolo al quale sono seduti i protagonisti, il pubblico lo sa e sa anche che questa esploderà tra dieci minuti. L’istinto è quello di urlare ai personaggi per avvertirli del pericolo”. Suspense e sorpresa, quindi, non sono la stessa cosa, perché la sorpresa consisterebbe nell’assistere all’esplosione senza sapere prima della presenza della bomba.
Ne Gli Uccelli, nella scena in cui Melanie sta fumando una sigaretta all’esterno della scuola, l’inquadratura si ferma su di lei per alcuni secondi. La ragazza si guarda attorno e vede un corvo, continua a fumare e poi, quando guarda di nuovo, vede tutti i corvi improvvisamente riuniti. È l’esempio di una tecnica per ottenere la suspense del tutto nuova per quegli anni, in cui viene omessa una scena (cioè quella dei corvi che si assembrano). Uno stile che Truffaut paragonò al découpage, “assolutamente personale, raramente prevedibile e sempre efficace”.
Ad Hitchcock non interessa in alcun modo la verosimiglianza. Ed è per questo motivo che nei suoi film una ornitologa può trovarsi, per pura coincidenza, in un bar proprio durante una conversazione riguardante gli uccelli. “Avrei potuto girare tre scene in modo da non rendere così deliberatamente casuale la sua presenza nel caffé, ma sarebbe stata un’aggiunta senza alcun interesse”, spiega il regista. Eppure nel suo cinema è fondamentale l’autenticità degli arredamenti e dei mobili. Può sembrare una contraddizione, ma non lo è: ricostruire un ambiente credibile vuol dire permettere allo spettatore di “abitarlo” insieme ai personaggi, metterlo nelle condizioni di comprendere la scena (e, come sempre, di reagire ad un determinato avvenimento che la sconvolge). Così il ristorante de Gli Uccelli è una copia fedele di un locale che esisteva davvero in quelle zone, così come la casa dell’agricoltore, di cui fu ricreata persino la finestrella dell’andito con la medesima vista sulla montagna di quella reale. O ancora l’abitazione dell’insegnante che da San Francisco si trasferisce a Bodega Bay, arredata combinando lo stile di una vera casa di una insegnante di San Francisco e quella di una insegnante della baia. Persino per il reparto costumi furono fotografati decine di abitanti del luogo per studiarne il vestiario.
Ciò testimonia un’attenzione ai dettagli tutt’altro che scontata. Per realizzare quei dieci secondi del film in cui i gabbiani attaccano la città dall’alto, ci sono voluti tre mesi di lavoro per aggiungere alla scena gli uccelli attraverso i “traveling mattes”, combinando più immagini (sfondo, persone, uccelli) in un unico frame finale. Il sistema più utilizzato all’epoca era quello del “blue screen”, una tecnica di separazione del colore che sfruttava una specifica gradazione di cobalto. Per Gli Uccelli venne invece utilizzato un processo diverso, filmando la scena davanti ad uno schermo bianco illuminato da potenti luci al vapore di sodio. Tale luce ricadeva in uno specifico spettro di colori, una tonalità di giallo che non veniva registrata sui layer del rosso, del verde o del blu. Una macchina fotografica con un prisma “beam-splitter” veniva quindi utilizzata per ottenere due elementi separati della pellicola. Uno principale (negativo a colori) ed uno secondario (in bianco e nero a grana fine) che serviva per la creazione di una maschera da usare poi per formare l’immagine definitiva tramite stampante ottica.
Anche il “suono” del film, nel cinema di Hitchcock, si piega al servizio della narrazione. Spesso i rumori che si ascoltano non corrispondono alle immagini che si vedono, ma richiamano una scena precedente o sono inseriti al solo scopo di creare un effetto drammatico. Ne Gli Uccelli non c’è musica, ma i suoni degli animali sono stati trattati come a voler comporre con essi una partitura. In alcuni momenti diviene quindi difficile capire se il suono del film sia effettivamente diegetico (cioè prodotto dagli uccelli) o se invece non abbia attinenza con quello che si sta osservando.
A Remi Gassmann e Oskar Sala fu affidato il compito di creare artificialmente tutti i rumori degli uccelli attraverso nastri magnetici accelerati in lettura e con uno strumento elettronico chiamato Trautonium (un ibrido tra organo e sintetizzatore musicale). La supervisione del suono fu invece affidata a Bernard Herrmann (storico compositore dei film di Hitchcock). Durante le riprese, quando ancora non si disponeva dei rumori delle ali e delle grida dei gabbiani, si cercò di ottenere delle reazioni credibili da parte degli attori utilizzando dei tamburi da suonare nel corso delle scene di angoscia. Nella famosissima scena dell’urlo sordo di Lydia (ripresa da Francis Ford Coppola ne Il Padrino - Parte III, quando Micheal Corleone assiste alla morte accidentale di sua figlia) si risalta il rumore di fondo. I passi all’interno della casa, quando la donna deve ancora scoprire il cadavere, e quelli fuori, producono un suono completamente diverso. Quando lei scappa il rumore dei passi è proporzionale alla grandezza dell’immagine e aumenta fino a quando il personaggio non raggiunge il camioncino. Solo a quel punto si sente il rumore deformato del motore, come un grido di agonia.
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