“Deserve’s got nothing to do with it”. È quello che dice William Munny a Little Bill ne Gli Spietati ed è uno dei temi conduttori del cinema di Eastwood, specialmente negli ultimi anni, da Sully a Richard Jewell: non sempre è possibile ottenere ciò che ci si meriterebbe. Anzi, quelli eastwoodiani sono spesso eroi che vengono contestati, processati, attaccati ingiustamente, incolpati per crimini che non hanno commesso o posti sotto il severo giudizio di un sistema che non consente che si operi al di fuori delle sue regole, anche se per necessità o per un bene superiore. È ovviamente un tema che ricorre tantissimo in questo suo ultimo Giurato numero 2, un thriller di elegante classicismo, ma allo stesso tempo complicato e ricco di sfumature, che testa tutti i limiti della giustizia americana, raccontata come un meccanismo farraginoso che facilmente si inceppa e finisce per condannare innocenti e lasciare liberi i veri colpevoli. È un’accusa che in questi ultimi mesi è stata rilanciata anche da saggi letterari come quelli di John Grisham, Jim McCloskey e Dan Slepian, che in maniera differente hanno voluto far conoscere al pubblico le tante storie paradossali di errori giudiziari che, in alcuni casi, hanno trascinato in galera (o, peggio, alla pena capitale) persone completamente estranee ai fatti oggetto dei procedimenti. Eastwood, stavolta, va persino più a fondo. Non si limita a mettere in scena gli esiti nefasti a cui quel sistema può condurre in ultima istanza, ma muove le sue contestazioni fin da subito, mettendo in luce tutti i suoi punti ciechi. James Scythe (Gabriel Basso) è accusato dell’omicidio della sua fidanzata: c’è un movente, ci sono una serie di fatti che apparentemente lo inchiodano alle sue responsabilità, c’è un trascorso turbolento tra i due che spiegherebbe il delitto. Insomma, sembra di trovarsi davanti a un caso facile e il suo è un perfetto identikit, anche fisicamente, di un assassino. Scythe, però, e il film non sorvola su questo dettaglio, è andato a processo perché ha insistito, nonostante le obiezioni del suo stesso avvocato, un umile difensore d’ufficio che si trova invece ad affrontare un pubblico ministero in carriera, determinatissimo nel far condannare l’uomo nel minor tempo possibile, essendo in corsa per la rielezione. Il rifiuto di un patteggiamento preventivo e la scelta di andare a processo corrispondono a un aumento di pena in caso di condanna. Si tratta della cosiddetta trial-penality, che in America ha ormai ridotto drasticamente il numero di casi che effettivamente arrivano davanti a una giuria (solo il 2% del totale). Nella stragrande maggioranza dei reati contestati, gli imputati rinunciano ad un diritto costituzionale e concordano una pena minore rispetto a quella che potrebbe essere loro inflitta in caso di condanna dopo un processo (che però è l’unico luogo in cui poter concretamente dimostrare la propria innocenza). Se il processo comincia, come avviene nel caso raccontato da Eastwood, ci sono ugualmente tantissimi modi in cui le cose possono non andare come devono, anche senza necessariamente la presenza di qualcuno che operi attivamente per depistare (come spesso avviene nei casi reali di errori giudiziari). È un sistema disegnato per non funzionare, sembra quasi suggerirci un regista mai così pessimista, che in maniera inesorabile ci mette davanti alla banale fragilità di un’istituzione che, in fin dei conti, si regge esclusivamente sulla buona volontà e sulla buona fede di uomini e donne ampiamente fallibili, con le loro debolezze, le loro percezioni falsate e, in alcuni casi, persino con una certa fretta nel voler chiudere la faccenda per tornare alla propria vita privata. Ed è qui che entra in gioco un altro grande tema del cinema di Eastwood: quello della responsabilità individuale. Il sistema descritto non sarà sicuramente il migliore possibile, ma è l’unico che si ha a disposizione. Per farlo funzionare, serve che ciascuno al suo interno lavori con disciplina, onestà e rigore.
Non è quello che avviene in Giurato numero 2, in cui le acque si faranno sempre più torbide man mano che il protagonista, un giovane chiamato come giurato mentre aspetta di diventare papà da un momento all’altro, capisce di avere qualcosa a che fare con la vittima e con le circostanze della sua morte. Si trova così davanti a un dilemma morale di difficile risoluzione: se far finta di nulla e lasciare che il caso si avvii verso la sua preannunciata conclusione (la condanna del fidanzato accusato di omicidio), oppure svelare un suo coinvolgimento in quella vicenda, rischiando di finire lui tra gli imputati. Eastwood utilizza ancora una volta il meccanismo del “replay” già sperimentato in moltissimi dei suoi ultimi film (Sully, Attacco al treno, Richard Jewell), per rimettere in scena il trauma, per ripercorrere l’accaduto davanti agli occhi dello spettatore in maniera tale che possa comprendere fino in fondo i fatti. Solo che in questo caso, tornati sulla scena del crimine, avviene uno sdoppiamento tra innocenza e colpevolezza, come se stessimo assistendo ai due possibili finali di una stessa storia. Si apre una crepa e si crea una distanza incolmabile tra le idee che ci eravamo fatti all’inizio e la nuova consapevolezza maturata nel corso del film. Per molto tempo, l’atto di farsi giustizia da soli è stato un totem del pensiero di destra, ma anche - se pur in maniera contraddittoria e più complessa - del cinema di Eastwood. In Giurato numero 2, in fin dei conti, ci troviamo nuovamente davanti a un uomo mosso dalla voglia di farsi giustizia in maniera autonoma, stavolta senza l’utilizzo di armi da fuoco e senza ricorrere alla violenza privata, ma invece agendo direttamente dall’interno di quell’apparato di norme e procedure che dovrebbe invece esprimere una sentenza nel nome di un popolo (e non di un singolo). Lavorando su due binari differenti, quello della verità processuale e quello della verità in senso assoluto (le due cose non coincidono), Clint Eastwood mette in scena anche due tipi di mascolinità speculari ma ugualmente tossiche: quella violenta, orgogliosa, da maschio alfa, e quella vigliacca, meschina, più subdola e manipolatrice. Raccontando contemporaneamente il ruolo pubblico del protagonista (come giurato) e il suo vissuto privato, il regista finisce per attaccare duramente e senza sconti un’altra istituzione cara al conservatorismo americano: quella della famiglia, che qui si mostra nelle sue logiche chiuse, da clan. Un’organizzazione sociale che punta innanzitutto alla propria autoconservazione, che pone gli interessi dei suoi componenti davanti a quelli di tutti gli altri. Anche in questo caso, è la responsabilità individuale che fa la differenza, ma nel contesto famigliare sembra più difficile prendere delle decisioni che non siano dettate esclusivamente dall’egoismo. Un posto che preserva non tanto l’affetto, quanto la menzogna. Giurato numero 2 diventa così un’affascinante indagine su come il male possa circolare in assenza di sufficienti anticorpi nella società civile, fino a penetrare nel cuore della situazione domestica più ordinaria e rassicurante. Un sistema, quello famigliare, che per contrapposizione infonde una nuova fiducia in quello giudiziario, pur duramente criticato. Se nel primo caso è più facile nascondere, dissimulare, fare finta di nulla e tirare a campare, nel secondo caso è più alta la possibilità che qualcuno, ad un certo punto, venga a bussare alla porta per saldare i debiti con la giustizia. Almeno fino a quando - e qui si torna alla responsabilità individuale - ci sarà qualcuno (probabilmente una donna) che decide di non fermarsi davanti a un verdetto che non convince. E che crede ancora in quel sistema di valori e di ideali che l’America contemporanea sempre più sta mettendo in discussione.
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