All’80esima Mostra del Cinema di Venezia arriva The Palace: nuovo film di Roman Polanski, novant’anni compiuti da pochissimo. Tour de force della decadenza e della vecchiaia decrepita in un hotel-Titanic arroccato sulle Alpi svizzere. Una commedia sullo sfondo della fine del 1999: non solo l’epilogo di un secolo, ma la fine di un intero e controverso millennio, con la paura del Millennium Bug che aleggia su tutti quanti. Ne abbiamo parlato con una delle attrici principali del film: Fanny Ardant.
D: Iniziamo subito affrontando il grande elefante nella stanza. Roman Polanski non è qui a Venezia, per le ragioni che tutti conosciamo e il suo nuovo film non ha ancora una distribuzione in Francia: un Paese, che è anche il suo, che lo ha sempre difeso in passato, anche con il precedente film (L’Ufficiale e la Spia, ndr), trionfatore ai premi César del 2020. Cosa è successo?
R: Questa è una cosa che davvero non capisco. Quello che capisco è che, come avviene oggi per tutte le cose, questa ondata moralizzatrice è cominciata dall’America e le democrazie europee hanno seguito a ruota come dei cagnolini. Polanski è un amico, lo amo molto. Con lui avevo lavorato sul palcoscenico teatrale, quindi lo conoscevo già come un formidabile regista di attori e attrici, che segue persino nei gesti e nell’intonazione. Quando ho letto la sceneggiatura, non ho avuto dubbi. Anche perché un personaggio così comico come la Marchesa non lo avevo mai interpretato. È stato come attraversare una foresta che non conoscevo. Polanski è estremamente pignolo, ma questa è una grande fortuna per un attore o un’attrice. Perché ci sentiamo davvero considerati, osservati sempre attraverso il suo inseparabile viewfinder, e quindi spronati a migliorare e a dare il meglio di noi sul set.
D: Pensa però che per un’attrice più giovane, che non ha la sua fama e la sua carriera, potrebbe essere più difficile accettare un ruolo in un film di Polanski?
R: Penso che un’attrice non debba prendere queste decisioni pensando alla carriera. Altrimenti si diventa freddi, calcolatori. Si perde il fuoco sacro che ci spinge a fare questo mestiere. Non si può mai sapere cosa accadrà in futuro nella propria vita, quindi il mio consiglio è quello di non fare le scelte che sembrano oggi più facili, perché in passato abbiamo attraversati altri periodi di purghe e di censure, ma gli artisti che oggi ricordiamo sono quelli che hanno continuato a fare arte anche in quegli anni tristi.
D: I suoi colleghi sul set ci hanno parlato di Polanski come un regista attento anche ai più piccoli e apparentemente insignificanti particolari. C’è stato qualche dettaglio del suo personaggio, quello della Marchesa, di cui si è occupato direttamente Polanski?
R: Mi ricordo che ha insistito sul mio modo di vestire. All’inizio il mio abbigliamento sul set era molto più borghese, essendo la Marchesa uno dei pochi personaggi ad essere realmente nobile e non un’arricchita. Polanski ha insistito invece per il cuoio e per un look più rock n’roll, tipico di chi vuole dimostrare ancora grande vitalità nonostante l’età che avanza. Poi Polanski mi prendeva in giro per il mio inglese, perché arrotolavo le erre. Mi diceva che sembravo un’araba.
D: The Palace ha una impostazione prettamente teatrale. Un gioco di porte girevoli che permettono una costante alternanza dei personaggi su schermo. Lei, che con Polanski aveva lavorato proprio a teatro, come ha vissuto questa esperienza?
R: Benissimo, perché il palco teatrale per me è sempre stato un luogo di felicità. In cui sentirmi protetta. Quando sono sul palco penso che nulla di male possa accadermi. Io ero una grande ammiratrice di Sean Connery e lui, ogni volta che finiva di girare un film di James Bond e di fare il playboy internazionale, si rifugiava sempre in Inghilterra, ad un piccolo festival locale dedicato a Shakespeare per tornare alla difficoltà del palco, cimentandosi con personaggi come Amleto, Re Lear. Nella carriera di un’attrice di cinema bisogna sempre purificare il proprio sangue, ciclicamente, con il teatro. Perché lì sei da sola, non hai una rete sotto di te. Se anche un attore come Sean Connery, che non aveva nulla da dimostrare, aveva fatto questa scelta, evidentemente aveva capito qualcosa di fondamentale.
D: Nonostante il tono ovviamente grottesco di tutto il film, sembra esserci una benevolenza di fondo verso alcuni personaggi, specialmente quello della Marchesa. È così?
R: È un personaggio che amo molto perché è completamente pazza, ma ha anche una sua malinconia. Nel Palace è da sola, non ha amici. È una donna molto vitale, allo stesso tempo folle ma anche dolce, fragile. E ha solo due grandi amori: quello per i cani e quello per i maschi.
D: Ecco, a tal proposito, come è stato gestire il cane sul set, considerando quello che ci ha detto di Polanski e della sua mania di controllo?
R: Ero molto preoccupata, infatti. Ma quel cane si è rivelato un genio. Aveva due addestratori italiani. E faceva tutto quello che gli diceva Polanski, senza la necessità di dover rifare le scene. Generalmente avere animali e bambini sul set è sempre una cosa difficilissima, invece quel chihuahua è stato uno dei più brillanti componenti del cast.
D: Lei ha parlato della sua lunga amicizia con Polanski. Ma qual è il suo rapporto con il cinema di Polanski. Ha un film a cui è particolarmente legata?
R: Mi ricordo ancora lo shock di quando vidi Chinatown per la prima volta. Ma amo molto anche Il Pianista e film più piccoli come Venere in Pelliccia. Lui è capace di orchestrare grandi epopee e poi tornare a cose minuscole. Questo perché lui, da giovane, in Polonia, ha fatto tutti i mestieri che si potevano fare a teatro: elettricista, attrezzista... Quando guardo i film di Roman, mi piace soprattutto il fatto che non ti vuole fare la morale. Quello spetta al Presidente della Repubblica. O ai preti, al massimo. Non spetta ai registi o agli scrittori, che non ti devono dire cosa è giusto fare e cosa no. Anche in The Palace esiste il mondo dei camerieri, che non è in smaccata e binaria contrapposizione con gli altri, con il mondo dei ricchi. È lì, raccontato con pochi dettagli ma in maniera molto intelligente. E tu, spettatore, puoi trarre la tua morale.
D: Uno dei temi del film è quello della paura di invecchiare, il ricorrere alla chirurgia estetica come tentativo disperato di fermare il tempo sul proprio volto. Cosa ne pensa?
R: Penso che quello dell’invecchiamento e della morte sia uno degli ultimi tabù del nostro tempo. Sui giornali leggiamo continuamente articoli su come ritardare l’invecchiamento, su come invecchiare serenamente, su quali prodotti usare per non sembrare vecchi. Invece bisogna affrontare questo tema. La chirurgia estetica applicata in tal senso è una follia. Ettore Scola diceva: tra poco non potremo più prevedere ruoli di nonne nei nostri film, perché non ci saranno più attrici per quei ruoli lì. Arriverà magari un momento in cui basterà prendere una pillola per non invecchiare. Se dovesse succedere, io dico già che non la prenderei, perché a quel punto essere vecchi sarà chic e in controtendenza.
D: Nel film compaiono alcune donne in avanti con gli anni, pazienti di un noto chirurgo estetico, che non sono attrici professioniste, ma conoscenti dello stesso Polanski?
R: Sì, erano donne che Polanski conosceva, che aveva incontrato nella sua villeggiatura. E allora le ha invitate a far parte del film e loro hanno accettato di buon grado. Erano contentissime di comparire in un’opera di Polanski, anche se poi nell’opera vengono derise e massacrate (ride, ndr).
D: Che rapporto ha il suo personaggio con l’avvenimento che incombe sul film, quello del Millennium Bug?
R: La Marchesa è genuinamente preoccupata e crede a tutte quelle sciocchezze sul “bug”. Poi il tempo ci ha detto che l’errore, il malfunzionamento, non si è palesato nella tecnologia, ma nell’animo umano. Abbiamo fatto cose terribili. Mi è capitato di vedere recentemente Oppenheimer, ma secondo me anche quel film ha un grande problema. Non mette in chiaro una cosa che a tutti deve essere chiara: quella bomba è stata sganciata quando ormai non era più necessario farlo.
D: Avete avuto modo, prima di girare, di prendere familiarità con il luogo in cui si svolge tutta la narrazione? Avete soggiornato nell’hotel?
R: Sì, è stato molto piacevole perché avevamo tutto l’hotel per noi, avendo girato il film in bassa stagione, a marzo. Io non ho vissuto la cosa in maniera particolarmente mondana, dal momento che odio le cene con più di quattro persone, quando gli argomenti di conversazione diventano inevitabilmente noiosi e banali. Quindi non ho partecipato a cene o altro. Però ho scoperto delle cose incredibili mentre ero lì, tipo che c’è una suite di lusso prenotata per tutto l’anno da un miliardario, che però non ci va quasi mai. Ho chiesto al manager dell’hotel come mai, e lui mi ha risposto che la tiene bloccata altrimenti qualcun altro potrebbe prenotarla al posto suo e dimostrare di avere più soldi. È una follia. Ed è di questa follia che parla The Palace.
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