Elemental | nel nuovo film Pixar emerge la tensione tra intervento umano e machine learning
Scroll DownA cura di Leonardo Moretti
Questo nuovo Elemental è a tutti gli effetti un modello esemplare della nuova direzione presa dalla Pixar dopo l’addio di John Lasseter: una direzione che ai film sui sentimenti umani nella loro genericità (e quindi ampiezza, totalità e universalità), preferisce delle storie molto più specifiche, intime, legate a precisi contesti sociali e culturali. Anche se, a differenza di Soul e Red non ci troviamo in un’ambientazione reale, geograficamente riconoscibile, ma in un mondo parallelo che segue tutte le regole di quello umano (come da tradizione dello studio), la stessa Element City, città immaginaria dove si svolge la narrazione, è disegnata affinché ogni rimando alla realtà non restituisca semplicemente una idea vaga di multiculturalismo, ma una invece estremamente dettagliata e pregnante. Pur non essendoci infatti una corrispondenza diretta tra elementi ed etnie, le interazioni tra essi dicono tutte qualcosa di molto accurato sui contrasti tra culture diverse di cui è piena la quotidianità nelle metropoli. L’acqua è l’elemento presente da più tempo di tutti e quindi ha avuto la possibilità di creare un ambiente a propria misura, modellato sulle proprie esigenze. Poi sono arrivate aria e terra, che con l’acqua si integrano bene, essendo tutto sommato compatibili e potendo beneficiare gli uni degli altri. Infine è toccato al fuoco, la cui comunità è arrivata per ultima, fuggendo da un paese devastato da una catastrofe naturale (la famiglia della protagonista è composta a tutti gli effetti da migranti climatici). Arrivando in un mondo in cui tutto funziona con l’acqua, il fuoco trova invece difficoltà a vivere secondo la propria natura, apparentemente inconciliabile con quella degli altri elementi, alimentando diffidenza e razzismo e determinando un arretramento in ghetti in cui chiudersi e fare gruppo.
Il regista Peter Sohn, figlio di immigrati coreani, ha avuto così modo di raccontare non solo la propria adolescenza come migrante di seconda generazione a New York, ma anche le sue difficoltà nel coltivare una relazione amorosa con qualcuno al di fuori della propria “minoranza”. Anche questa scelta, quella di costruire il film prendendo spunto dalle vicende private dei propri creativi, è una delle novità introdotte dalla nuova direzione di Pete Docter. Prima Dan Scanlon ha elaborato il trauma dell’aver dovuto dire addio al proprio papà quando ancora era un ragazzino (Onward), poi Enrico Casarosa ha messo in scena la sua infanzia nella provincia italiana (Luca) e infine, in maniera molto simile a Elemental, la regista e sceneggiatrice cinese, naturalizzata canadese, Domee Shi ha riflettuto sulla sua adolescenza nella Chinatown di Toronto (Red). Un approccio che punta meno all’astrazione e più invece alla creazione di un contesto riconoscibile nella sua singolarità. Rispetto a questi ultimi esempi, però, Elemental segna una distinzione fondamentale, che è quella visiva. E non è un caso che alla regia ci sia proprio Peter Sohn, già autore de Il Viaggio di Arlo, uno degli ultimi bastioni dell’animazione fotorealistica prima del progressivo allontanamento da quello stile (codificato dalla Pixar) in favore di una stilizzazione sempre maggiore. In controtendenza con il gusto oggi prevalente per un’ibridazione tra tratti (tra bidimensionale e tridimensionale), e con i casi di Luca e Red, in cui la complessità della computer grafica e dei modelli poligonali veniva modulata anche con lo scopo di raggiungere un dettaglio minore, in grado di replicare più fedelmente il disegno umano, Elemental sceglie invece di spingere ancora e ostinatamente sulla tecnologia e sulla riproduzione fedele della realtà, animando i suoi protagonisti attraverso il deep learning (con la tecnologia del neural style transfer) e l’intelligenza artificiale. Uno sforzo, soprattutto in termini di potenza di calcolo - quasi due petabyte di capacità richiesta contemporaneamente rispetto ai 300-500 terabyte dei film più recenti - che restituisce in maniera assolutamente credibile il movimento dei fluidi e la fisica del fuoco, ma allo stesso tempo lascia i personaggi in balia dell’algoritmo che li “calcola” e comanda la loro presenza su schermo.
È questo uno degli elementi più affascinanti di Elemental: la tensione, sempre percepibile, tra macchina e intuizione artistica, l’evidente complessità nel mitigare la freddezza dell’automazione con un tratto umano. Una sfida che non si riflette solo sul piano del disegno e dei modelli poligonali, ma anche su quello della recitazione, specialmente quando la storia che viene raccontata è innanzitutto una storia di innamoramento e di romanticismo, in cui l’emergere dei sentimenti deve essere visibile in primo piano, sul volto dei protagonisti. Insomma, una storia in cui l’emozione deve riuscire ad imporsi sugli automatismi del machine learning. Stavolta, non è tanto il character design a suggerire la personalità di un personaggio (come in Inside Out, ad esempio), ma è la diversa gestione degli elementi che lo compongono (le fiamme che diminuiscono in dimensione e luminosità ecc.) a rendere chiaro il suo umore in un dato momento. Questo implica la necessità, per i creativi in Pixar, di ritagliarsi sempre uno spazio di manovra utile a controllare e gestire direttamente tutti quei dettagli di recitazione a loro indispensabili in modelli che però, come già spiegato, sono generati automaticamente da software di apprendimento profondo. È una dialettica che riguarda tutto il cinema di animazione contemporaneo e che la Pixar sta dolorosamente cercando di elaborare nel campo su cui si è sempre trovata meglio, quello del fotorealismo, e che invece altri (vedasi Sony e Dreamworks) sembrano aver deciso di abbandonare definitivamente.
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