Per il suo film più esplicitamente biografico, quello in cui decide di raccontare dopo anni di tentennamenti la scomparsa dei propri genitori a causa di un incidente domestico, Paolo Sorrentino decide di adottare uno stile asciutto e minimale, di consegnare allo spettatore un film cosciente delle proprie mancanze, tutto in potenza, teso verso una narrazione che comincia davvero solo dopo il finale. È stata la mano di Dio è un film che comunica il disperato bisogno di dire qualcosa, finendo un attimo prima del momento in cui finalmente capisce ciò che vorrebbe dire. Percorso da una urgenza che rimane inevasa, trova l’apice della sua poesia nel tentativo di fare del proprio potenziale inespresso il vero fulcro della narrazione, di rendere percepibile in ogni momento il desiderio di raccontare una storia senza mai davvero elaborare un racconto coerente, organico e lineare. Il film di Sorrentino trova nell’attesa del suo giovane protagonista la propria dimensione ideale e trasforma in una lunghissima rincorsa l’accumulazione di tante minuscole decisioni rimandate (la visione del film di Sergio Leone più volte procrastinata) e di tanti piccoli slanci verso il futuro che sembrano esaurirsi sulla lunga distanza.
La musica non originale, da sempre elemento fondamentale del cinema di Sorrentino, è completamente assente dal suo film più personale. Anche se il protagonista non si separa mai dal suo walkman e il film costantemente ci ricorda quanto sia prezioso quell’oggetto per lui, lo stesso lo spettatore non ha mai la possibilità di ascoltare quella musica. Sorrentino fa notare quell’assenza per tutto il tempo così da caricare l’ultima inquadratura, in cui irrompe un brano di Pino Daniele in grado di riassumere tutto ciò che è stato raccontato fino a quel momento. È lì, nella scena finale, quella di un viaggio verso Roma, che inizia il vero racconto, che non può che coincidere con la filmografia dello stesso Sorrentino.
La frastornante e debordante famiglia Schisa viene presentata fin dall’inizio attraverso la propria estroversione fantastica e esagerata: prima l’incontro con San Gennaro, poi il bagno collettivo sotto la casa di Eduardo, gli scherzi della madre, la sorella perennemente chiusa in bagno, lo zio truffatore. Circondato da affetti, Fabietto, nel suo percorso per affrancarsi dal diminutivo, è però sempre solo: quello con la città di Napoli è l’unico vero legame che conta. Sorrentino si confronta col passato rileggendo la propria città attraverso l’occhio del cinema, così come Fellini fece in Amarcord con la sua Rimini. È stata la mano di Dio è uno di quei titoli in cui la città è cruciale per la narrazione (Le conseguenze dell’amore, Il Divo, La Grande Bellezza). Ogni snodo della trama avviene in un luogo non casuale, capace di interagire direttamente con i personaggi che lo abitano, arrivando a comunicare sempre qualcosa in più di quanto possa fare il solo intreccio. Il mare di Napoli apre il film con una panoramica ampissima, tutta drone, che poi stringe fino al dettaglio, che qui è una macchina degli anni ‘30 che corre sul lungomare. Dall’immagine risaputa da “film commission”, Sorrentino estrae un dettaglio e su quello comincia a costruire il proprio racconto. La sua è una Napoli che si fa progressivamente metafisica, una città che si sporge sempre più verso il Tirreno fino a liquefarsi, diventando una immensa distesa di acqua in cui tuffarsi e riemergere diversi. Una sfida anti-verghiana: qui il mare ha paese ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare, dai poeti ai contrabbandieri.
Del mare, il film di Sorrentino ha il movimento e il punto di fuga verso l’orizzonte: solcato da piccole increspature che lo rendono sempre diverso da sé stesso, ricorda al protagonista del film la possibilità di immaginare un approdo al di là di tutta quell’acqua. Essendo allo stesso tempo abisso e sconfinatezza, mette in guardia dalla possibilità di rimanere inghiottito e suggerisce sempre buone ragioni per attraversarlo. Nel momento in cui Fabio, con la benedizione del munaciello, si trasforma in Paolo, tendendo verso un futuro che sa finalmente di volere, può finalmente cominciare il vero racconto. Racconto che, però, è già avvenuto. È quello cinematografico di un regista che, da allora, ha mantenuto la promessa fatta ad Antonio Capuano e non si è più “disunito”.
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