Il sottotitolo del nuovo film di Radu Jude, ovvero Do Not Expect Too Much From the End of the World, è “dialogo con un film dal 1981”. È quindi evidente che, come nel caso di The Marshal’s Two Executions (2018) e Tipografic majuscul (2020) ci troviamo ancora una volta davanti a quello che è innanzitutto un sofisticato esercizio di montaggio. Un film di finzione che racchiude in sé spezzoni di un film precedente, quello diretto appunto nel 1981 da Lucian Bratu e intitolato Angela Goes On, utilizzato da Jude come capsula del tempo utile a documentare la Bucarest degli anni Ottanta, quindi dell’era di Ceaușescu, che diventa la base visiva per una serie di evocative giustapposizioni della città di allora e di oggi. Jude richiama così in scena Angela Coman (Dorina Lazăr), la protagonista - oggi anziana - di Angela Goes On (o Angela Moves On, titolo dal significato ambivalente, che al movimento nello spazio ne associa anche uno emotivo), che nel film originale guidava moltissimo per le strade di Bucarest per guadagnarsi da vivere. Il montaggio alternato di Radu Jude invita il pubblico a confrontare la Bucarest mappata dall’immaginaria Angela di Bratu nel suo ruolo di tassista, mentre l’era di Ceaușescu stava appena entrando nel suo ultimo decennio, con la Bucarest attraversata dalla nuova protagonista del suo film, anche lei Angela e anche lei in auto, più di 40 anni dopo. Ci troviamo davanti a una città molto più trafficata, con un numero esponenzialmente più alto di auto a intasare le strade della capitale e a scaricare polveri inquinanti nell’aria, al punto che le immagini provenienti dal passato socialista ci appaiono preferibili e avvolte da un nostalgico romanticismo. Ma ovviamente è tutto un gioco di percezioni, un modo per svelare come il cinema - così ieri, così oggi - possa manipolare la realtà e dare una visione falsata della stessa.
Radu Jude conferisce stavolta al suo film un aspetto militante e programmaticamente “scadente”, da guerrilla filmmaking, brandendo il suo stile visivo come un’arma e collocandosi in una strana atmosfera neo-punk (e leggermente campy) contro tutte le restrizioni che attengono al cinema “ben fatto” e ben eseguito, fino ad arrivare a reclutare il notoriamente “cattivo” regista Uwe Boll, re del cinema trash, come mascotte, in questo gioco continuo tra alto e basso. Il riferimento estetico principale, infatti, è tutt’altro che “amatoriale”, ma tira in ballo direttamente Andy Warhol, citato spesso da Jude come fonte d’ispirazione per i suoi lavori in 16mm, per l’approccio minimalista, per l’utilizzo prediletto del piano sequenza e della singola inquadratura (oltre che per la composizione dei titoli di coda). Come è evidente, ci troviamo a indicare un ulteriore interlocutore (oltre a Bratu) in questo complesso dialogo che il regista romeno intraprende con il cinema del passato (recente e remoto) e che arriva fino a coinvolgere Maren Ade, che con il suo rocambolesco Vi presento Toni Erdmann ha messo in scena una Bucarest diversa da quella solitamente racconta dalla “Noul Val”, ovvero dalla nuova ondata di cinema rumeno di cui Jude è uno degli esempi più conosciuti. La Bucarest di Maren Ade, infatti, è una Bucarest terreno di conquista delle multinazionali, raccontata attraverso i suoi “non luoghi”, quelli che la globalizzazione e il capitalismo hanno creato in tutti i Paesi in cui esercitano il proprio potere predatorio. Come rivelato dallo stesso Jude a due attenti studiosi del suo cinema, cioè Andrei Gorzo e Veronica Lazar, l’idea iniziale era proprio quella di chiedere a Sandra Hüller (la protagonista di Vi presento Toni Erdmann) di apparire anche in Do Not Expect Too Much From the End of the World nel ruolo della dirigente d’azienda tedesca che arriva a Bucarest per le riprese di un cinico video sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nel film il personaggio si chiama Doris Goethe (Angela le chiede in modo ironico se è una discendente dello scrittore, e scopriamo che lo è davvero) e, interpretato da Nina Hoss, lo incontriamo per la prima volta durante una call su Zoom, con il viso fluttuante sullo sfondo virtuale della Trump Tower.
La composizione dell’immagine è ovviamente molto comica ed è indicativa dell’attenzione di Jude verso i nuovi strumenti di comunicazione (e quindi di produzione delle immagini). Non solo Zoom, ma anche e soprattutto TikTok, piattaforma sulla quale la sua protagonista lavora vestendo i panni di un becero alter-ego maschio e maschilista (qualcosa che l’attrice Ilinca Manolache fa davvero sui suoi profilo social). Un po’ come Assayas, che in film recenti come Personal Shopper, e poi più esplicitamente nel suo remake televisivo di Irma Vep, ha iniziato a filmare con insistenza gli “altri” schermi rispetto a quello cinematografico: cellulari, laptop e così via. Si tratta di un’attenzione non solo “estetica”, ma che nasce dalla voglia di indagare la realtà rumena contemporanea, che di questi social fa un uso massiccio. Georgescu, candidato indipendente della destra che potrebbe diventare presto il nuovo presidente della Romania, ha quadruplicato i suoi voti rispetto ai sondaggi spiazzando i media tradizionali e i navigati politici europei, che non avevano previsto una sua possibile vittoria. La sua campagna elettorale, non a caso, si è svolta quasi esclusivamente sul social cinese. Eppure nel film di Radu Jude non c’è necessariamente una condanna o una demonizzazione di queste nuove forme di linguaggio, ma il tentativo di analizzarle proprio perché è la loro capillare diffusione - specialmente tra le fasce più popolari della Romania - a richiederlo. La finzione cinematografica è per Radu Jude lo strumento che Max Blecher (l’autore rumeno da cui Jude ha adattato il film Scarred Hearts) lamentava di non avere nel suo romanzo “Adventures in Immediate Reality": lo strumento che serve a separarsi dal mondo, a difendersi dai suoi tentacoli che violentemente cercano di penetrare nello spazio intimo di chi quel mondo lo vive e lo attraversa. E in qualche modo i social svolgono lo stesso ruolo: permettono di nascondere a se stessi che si vive per davvero - e miseramente - nel mondo che uno vede attorno a sé (sempre per citare Blecher).
Ultimo terreno di discussione - anche in termini di minutaggio nel film - sul quale Jude si muove è quello della pubblicità, oggetto anche del suo nuovo Eight Postcards from Utopia, nel quale il regista si presta a un vero e proprio braccio di ferro con quel tipo di narrazione per immagini. «Cinema is the industry of money and stupidity», è una frase tratta da Traité de bave et d’éternité (di Isidore Isou) che Jude cita spesso con il suo solito fare dissacrante e iconoclasta, chiedendosi se cinema e pubblicità, nella loro essenza, siano davvero antagonisti. In uno dei monologhi che costituiscono l’ultima sezione del film, si parla proprio di come le pubblicità e i film aziendali siano vecchi quanto il cinema stesso, ricordando come anche il celebre “documento” cinematografico dei fratelli Lumière, con gli operai che escono dai cancelli della fabbrica di Monplaisir, non fosse altro che uno spot pubblicitario per la stessa fabbrica Lumière (e si dice che, insoddisfatti dalle prime riprese, i due registi costrinsero gli operai a inscenare un’altra uscita). Il cinema nasce quindi come uno strumento nelle mani del capitalismo (anche se qualcuno aggiunge che anche i film sulla sicurezza sul lavoro realizzati sotto il regime comunista rumeno puntavano a colpevolizzare il lavoratore). Negli anni 2000, quando stava cominciando ad affermarsi come regista, Radu Jude ha diretto molti spot pubblicitari, come d’altronde altri suoi illustri colleghi del nuovo cinema rumeno (Radu Muntean, Cristi Puiu). La differenza è che gli altri hanno tenuto separate le due linee di lavoro, mentre Jude ha colto fin da subito una tensione tra loro, e ha espresso il suo disagio, il suo senso di colpa per il tipo di lavoro che doveva fare nella pubblicità per sostenere le sue ambizioni di regista d’essai. Questo suo ultimo Do Not Expect Too Much From the End of the World è forse uno dei suoi capolavori, in cui tutte le tensioni che tengono insieme il suo cinema si palesano in maniera dirompente.
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