Se il primo Creed stava alla saga di Rocky come Il Risveglio della Forza stava alla saga di Star Wars, nel suo tentativo di ricalcare un canovaccio che già tutti gli spettatori conoscevano pur cercando di conquistare una propria identità ben definita, il suo sequel sembra non avere questa esigenza. La presenza di Sylvester Stallone alla sceneggiatura (che invece nel primo film era affidata a Ryan Coogler e ad Aaron Covington) rende Creed II un film che dialoga in maniera molto più esplicita con i precedenti capitoli della saga. Non si limita a riprenderne il modello (che in questo caso è quello di Rocky IV) ma fa in modo che ogni evento del nuovo film sia un modo per rielaborare e rivalutare fatti già accaduti nei capitoli precedenti. Ciò vuol dire che se il film diretto da Coogler non sempre era efficace nei momenti in cui cercava di sollevare la testa per essere all’altezza del mito che desiderava portare avanti, la sceneggiatura di Stallone inserisce in Creed II ciò che mancava nel primo: il tema della disperazione, il solo sentimento che in tutta la saga di Rocky è davvero in grado di innescare quella spirale verso il successo che coinvolge i protagonisti. È proprio quando i personaggi si trovano nelle situazioni più difficili che possono tirare fuori una determinazione tale da vincere la propria condizione di reietti.

Sorprendentemente il vero fulcro di Creed II non è la vicenda di Adonis e Rocky, bensì la parabola dei loro due sfidanti: Viktor e Ivan Drago. Sono loro nel film i perdenti con una grande occasione di riscatto, i disperati che hanno la possibilità di cambiare la loro vita attraverso lo sport, i due personaggi che covano dentro di loro sentimenti così forti da spingerli oltre i soliti limiti. La narrazione che li riguarda si estende per poco più di dieci minuti (sparsi per tutto il film), ma è chiaro che stavolta il messaggio sta nel loro percorso più che in quello di Creed e del suo “mentore”. Steven Caple Jr. ce li mostra sempre soli nell’inquadratura, a rimarcare visivamente la loro condizione di isolati, di emarginati. Nessun altro personaggio occupa il fotogramma quando sono inquadrati i due russi, che acquistano una nuova dignità grazie alla sceneggiatura di Sylvester Stallone, che cerca di fare ciò che la loro patria non ha fatto: riconoscere (ed esaltare) il valore della sconfitta.

Il film comincia lì dove invece gli altri di solito terminavano, con il protagonista che vince la cintura dei pesi massimi, conquistando la vetta. Ed è quindi chiaro fin dall’inizio che stavolta la “parabola” stalloniana (raggiungere la grandezza rimediando ad una sconfitta) non riguarderà tanto Adonis, ma la famiglia Drago, che ci viene da subito mostrata alle prese con un mondo che non ha mai perdonato i due lottatori (padre e figlio) per il loro insuccesso, ma che invece continua ad infierire senza risparmiare loro nulla. Sono i due boxer sovietici il vero perno del film, nonostante compaiano pochissimo sulla scena. Perché Stallone sembra invece più interessato ad usare i suoi tre personaggi (Rocky, Adonis, Ivan) per declinare in maniera differente un unico concetto: cosa vuol dire essere padri. I protagonisti di Creed II interpretano il loro ruolo genitoriale in maniera differente e tutti loro, nel corso del film, riusciranno in qualche modo a fare i conti con le proprie mancanze. Ma anche in questo caso, il risvolto più commovente sarà quello riguardante Ivan e Viktor al termine dell’ultimo match.

Il vero grande difetto di Creed II emerge però nelle scene di boxe. Dirette da Steven Caple Jr. con buona abilità di mestierante, più tecniche e leggibili rispetto a quelle di Ryan Coogler, le sfide sul ring stavolta sembrano non veicolare mai nessuna narrazione. Non si inseriscono nel racconto, ma rimangono fuori da esso. Se negli altri episodi della saga ogni scontro valeva come film a sé e aveva una propria “storia” interna, in questo nuovo capitolo ciò che davvero contribuisce allo sviluppo della trama avviene sempre all’esterno del ring.

Ma è grazie a Creed II (e all’intervento in sceneggiatura di Stallone) se ora siamo in grado di guardare quel tragico incontro di Rocky IV con occhi diversi. La sconfitta di Ivan Drago per mano di Rocky Balboa è stata forse quella più significativa: la faccia del marmoreo boxer al termine del quindicesimo round diceva già tutto di un uomo che era stato modellato da una società che non prevedeva (e non prevede ancora) la sconfitta. Sono passati 34 anni, ma è in Creed II che avviene la definitiva presa di coscienza del più grande “perdente” dell’epopea cinematografica di Rocky.