C’è una canzone dal nome “Dwa serduszka” che è il vero cuore del nuovo lavoro di Pawel Pawlikowski. Cold War è un film che solo in apparenza narra di una relazione amorosa, ma che invece vuole mostrare l’evoluzione di una società durante gli anni della guerra fredda attraverso il progressivo cambiamento del gusto musicale della stessa. Una operazione di rigorosa analisi filologica che storicizza il mezzo musicale come faceva (anche se in maniera completamente diversa) American Pop di Ralph Bakshi. Quella canzone, che inizialmente verrà proposta al pubblico come una ballata sovietica di origine bucolica per la compagnia di ballo Mazurek, muterà nel corso del film. Prima acquisirà un incedere bepop durante una improvvisazione al piano in un club parigino, poi prenderà la forma di una melodia blues da malinconica “torch song” ed infine verrà incisa come “chanson” francese sul primo album di Zula e Wiktor con un nuovo titolo (“Deux Coeurs”) e con un testo tradotto non in maniera letterale ma per assonanza linguistica fra francese e polacco. Sta tutto qui il senso di Cold War: tantissimo succederà (e tantissimi anni passeranno) dalla prima versione di quel brano alla sua versione definitiva, eppure il sentimento veicolato dalla musica, nonostante le parole completamente diverse del testo e lo stravolgimento a cui sarà sottoposto l’arrangiamento nel corso del film, sembrerà rimanere lo stesso di quando l’abbiamo ascoltata la prima volta dalla voce di una giovane contadina polacca.
Come lo scorso Ida, anche il nuovo film di Pawlikowski usa i 4:3 e il bianco e nero per descrivere una nazione, la Polonia, in un preciso periodo storico che sembra non poter essere rappresentato nel suo cinema se non attraverso l’assenza di colori. Ma se il bianco e nero di Ida, con le sue sfumature morbide e poco contrastanti, era un bianco e nero estetizzante, adesso quello di Cold War è diegetico, narrativo, quasi prosaico (nel suo significato letterale, senza accezione negativa). Lo capiamo fin dalle prime sequenze, quando il film sembra riprendere le inquadrature tipiche dei filmati della propaganda sovietica, fondata sul mito dei lavoratori e dei contadini nelle campagne, come a voler filmare di nuovo ciò che è già stato filmato (i materiali d’archivio). Man mano che la trama avanzerà, le immagini si caricheranno di lirismo, si faranno più stilizzate e perderanno il taglio documentaristico. La macchina da presa, all’inizio quasi sempre immobile, comincerà a muoversi in maniera febbrile quando la passione fra i due amanti si accenderà, accerchiando i personaggi e girando vorticosamente attorno ad essi (a differenza di Ida, composto quasi esclusivamente da inquadrature fisse). Zula si immergerà nell’acqua di un fiume come Ofelia e la cinepresa per la prima volta negherà la sua staticità per seguire la corrente: da quel momento, ogni qualvolta la protagonista femminile entrerà in scena, la regia assumerà una forza cinetica che prima non aveva. Anche la profondità di campo cambierà e la lunghezza focale sembrerà aumentare con il progredire della vicenda. Se all’arrivo di Zula e Wiktor a Parigi la visuale si restringerà e il rapporto focale farà in modo che i personaggi si separino dallo sfondo, a mostrare la loro alienazione e solitudine, verso la fine del film si tornerà ad una maggiore profondità di campo.
Come il Wiktor del suo film, che non è “francese ma neanche polacco”, così Pawlikowski non è né polacco ma neanche americano. Dopo essersi fatto conoscere in America con i primi suoi film, Pawlikowski ha scelto alcuni anni fa di tornare in Polonia, per scovare quelle storie che sono sempre appartenute a quella nazione e che nessuno aveva ancora mai raccontato. Il regista, cresciuto per sua stessa ammissione con le pellicole di John Ford (L’uomo che uccise Liberty Valance è uno dei suoi film preferiti) e con i grandi kolossal hollywoodiani come La caduta dell’Impero Romano di Anthony Mann, è di fatto un artista apolide come il protagonista di Cold War, opera che in alcuni momenti sembra richiamare le feste affollate del cinema americano degli anni ‘30 per poi virare sullo stile ruvido di John Cassavetes nelle scene in cui i personaggi sono soli e scoraggiati. Se per Ida il modello era l’essenzialità quasi austera di Dreyer, in Cold War i riferimenti sono altri, più commerciali e meno art-house. Persino le sequenze parigine ricordano molto poco la descrizione della città che facevano i film della Nouvelle Vague. La Parigi di Pawlikowski è invece monumentale ed imperiale, quasi come se fosse anch’essa una capitale sovietica.
I personaggi all’interno dell’inquadratura sono sempre decentrati, se non addirittura marginali rispetto alla grandezza del riquadro. Quelle che dovrebbero essere le figure principali nella scena non occupano quasi mai uno spazio superiore al terzo più basso del fotogramma: l’inquadratura non si esaurisce ma, sovrastando i personaggi in altezza, continua a mostrare. La verticalità dei 4:3 permette a Pawlikowski di rendere su schermo i rapporti di scala tra la minuta Zula e l’altissimo Wiktor. La regia gioca con la statura dei due protagonisti e inganna lo spettatore, mostrando enorme la piccola ragazza polacca e ridimensionando il suo amante. Una illusione ottica che trova la sua ragione in un bisogno non così diverso da quello che agita i due personaggi, sempre in costante movimento e mossi dalla necessità di passare da una parte all’altra della Cortina di Ferro per cambiare prospettiva e conquistare un diverso e rinnovato sguardo sulla relazione che li lega.
A differenza di quanto farebbe un qualsiasi musical, il film di Pawlikowski usa le immagini per sottolineare lo stato emotivo dei suoi protagonisti e non la musica. L’evoluzione della relazione sentimentale rimane quindi sostanzialmente impermeabile ai diversi contrappunti musicali, che invece servono più come chiave di lettura delle tensioni politiche che stanno attraversando la storia in un dato momento della narrazione (in alcuni passaggi i sentimenti dei personaggi saranno persino antitetici a ciò che loro comporranno o canteranno). Non solo l’Internazionale francese che assume il ritmo ternario della oberek polacca, ma anche la melodia lemko che inizialmente incanta Kaczmarek ma che poi viene subito scartata una volta che il direttore della compagnia Mazurek, filo-governativo, apprende l’origine slava della canzone (in un periodo di pulizia etnica in Polonia). Quando Wiktor chiede a Zula, durante il suo primo provino, di cantare qualcosa di significativo per lei, la ragazza sceglie un brano dal musical sovietico Tutto il mondo ride (1934) che non incontra il gusto della docente anti-sovietica.
La musica è lo sfondo di un film che solo superficialmente parla di un amore classico reso impossibile dalla troppa passione, ma che invece sembra più interessato all’evoluzione della musica stessa e a come attraverso la musica si sia sempre declinato il modo di vivere di una società. I due protagonisti non saranno mai davvero a loro agio, né nel mondo “libero” (Zula si infurierà con Wiktor perché la sua canzone preferita sarà stravolta nel significato da una poetessa così da renderla appetibile per il mercato discografico francese) né in quello sovietico (che impone alla compagnia Mazurek di sposare la propaganda governativa per poter sopravvivere ed ottenere sovvenzionamenti statali). Così il il cinema di Pawlikowski, in costante tensione come i suoi personaggi, sembra tenere insieme due concezioni diverse (e forse opposte) dello stesso mezzo artistico in modi che non pensavamo possibili prima di vedere Cold War.
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