Se c’è una cosa chiarissima in questo sequel di Beetlejuice è che i maschi sono tra le categorie di esseri umani più spregevoli al mondo. Lo è ovviamente il demone protagonista, che nel primo film tentava di sposare una ragazzina contro la propria volontà e che in questo secondo film si rivela anche uxoricida (la vittima è Monica Bellucci, che per la seconda volta nel 2024 torna dall’aldilà dopo Paradis Paris di Marjane Satrapi). Lo è il nuovo compagno di Winona Ryder - ragazzina testarda e volitiva nell’originale, adesso signora indecisa, in balia delle decisioni altrui - che le sta accanto solo per motivi economici, squalo del mondo dell’entertainment disposto a vendere al miglior offerente pure la sua vita privata (personaggi sempre più ricorrenti nella filmografia di Tim Burton dopo il “je accuse” fatto con Dumbo alla Disney, qui gustosamente menzionata in una perfida battuta). E chissà se spregevole è anche il ragazzo apparentemente gentile e romantico in cui si imbatte Jenna Ortega, figura esattamente speculare a quella di Lydia nel film del 1988: razionalissima adolescente che non crede nell’esistenza dei fantasmi e per questo viene marginalizzata all’interno della propria famiglia.

Infine, il personaggio di Jeffrey Jones viene in questo film “cancellato” in maniera tanto ridicola quanto cruenta, restituito allo spettatore con diversi stratagemmi comici (tranciato a metà - quindi irriconoscibile e sostituito con una controfigura - o persino trasfigurato con l’animazione in stop-motion). L’attore, lo ricordiamo, è nel frattempo caduto in disgrazia dopo essere stato arrestato per possesso di materiale pedopornografico e accusato di aver chiesto insistentemente a un ragazzino di posare per lui. Una dimostrazione reale della tesi di cui dicevamo all’inizio: il maschio è inaffidabile, manipolatore, egocentrico, violento. Il film avrebbe potuto glissare sulla sua scomparsa senza troppe spiegazioni (cosa che fa per Alec Baldwin e Geena Davis), ma preferisce invece ricondurre instancabilmente la trama alla sua rimozione forzata, giocando con tutti gli espedienti possibili per rimandare a lui e ironizzando sulla sua figura “positiva” nella finzione cinematografica (anche se, vale la pena ricordarlo, anche lui era un avido mercenario della finanza nel film originale). L’unico personaggio maschile con cui poter empatizzare è invece quello che non c’è più, sulla cui assenza ruota tutto il film: un padre - e un marito - premuroso, attento, coinvolto nelle cose del mondo e non soltanto nelle proprie attività economiche, attivista per l’ambiente che trova la sua tragica fine in Amazzonia mentre protesta per salvare la foresta pluviale. La sua è una mancanza talmente traumatica che anche Lydia - nel frattempo diventata famosa in tv per la sua abilità di comunicare con i defunti - non riesce a colmare attraverso i propri poteri sovrannaturali.

Cominciando da qui, Tim Burton costruisce una instabile e precaria sorellanza tra donne e tra generazioni, ritornando a quella sostanziale “femminilità” del suo cinema (Winona Ryder ieri, Jenna Ortega oggi) e a quella primordiale artigianalità che, in questo caso, non si aggiorna all’epoca del digitale - come fa invece “l’arte” di Catherine O’Hara, che da scultrice fallita nel primo film diventa artista multimediale nel secondo, sempre fallita - ma fa della propria naïveté una delle caratteristiche estetiche più evidenti. “Keep it real”, d’altronde, è il mantra che ripete l’esilarante attore-poliziotto di Willem Dafoe, anche lui relegato a recitare una parte ormai grottescamente obsoleta. Monica Bellucci, introdotta come antagonista principale della storia per diventare immediatamente una gag ambulante, che appare qua e là nelle fattezze di una neo-Barbara Steele - l’attrice prediletta di Mario Bava, idolo di Burton esplicitamente citato - è una metafora dell’intero progetto di questo sequel potenzialmente fatale: un cadavere tagliato a pezzi che si ricompone con le graffette per tornare in vita, mentre in sottofondo passa Tragedy dei Bee Gees. «When you lose control and you got no soul, it’s tragedy». Che è una delle ossessioni del regista in questa sua ultima fase della carriera: la perdita di controllo sulle proprie opere, la necessità di sottostare a dettami e a richieste che provengono dall’esterno, il rischio di perdere per sempre la propria anima artistica. Può un autore perdere la propria ispirazione? E, di conseguenza, può lo spirito di un’opera, di un’intera filmografia, ritornare se invocato tre volte? È questo quello che sembra chiedersi Tim Burton con Beetlejuice Beetlejuice, titolo che è già di per sé una evocazione, tirando fuori dal plastico il demone che agitava uno dei film che ha lanciato la sua straordinaria - quanto altalenante - carriera, sperando di poter sfuggire all’alito mortifero delle multinazionali dell’intrattenimento. La risposta è, fortunatamente, positiva.