NYFF | Anemone, Daniel Day-Lewis torna al cinema con un film che parla anche un po’ di lui
Dalla sua, Anemone, ha una grande fortuna, quella di poter contare per il ruolo di protagonista su quello che è probabilmente l’attore più grande della sua generazione: Daniel Day-Lewis.

È veramente un film strano Anemone, debutto alla regia di Ronan Day-Lewis. Lo è un po’ come sono strane tutte le opere prime ambiziose, che puntano a rendere visibile fin da subito la mano del loro autore, anche a costo di qualche scelta un po’ grossolana, senza preoccuparsi troppo di risultare pretenziosi e alienanti rispetto a un pubblico potenzialmente impreparato o, ancor peggio, poco attento. Dalla sua, Anemone, ha però una grande fortuna, quella di poter contare per il ruolo di protagonista su quello che è probabilmente l’attore più grande della sua generazione. Daniel Day-Lewis, dopo una pausa di otto anni che l’ha tenuto lontano dallo schermo, si mette così al servizio del figlio neo-regista, ma sceglie anche di co-sceneggiare il film, di fatto quindi cucendo su se stesso il personaggio cupo e stravagante di questo padre-eremita, che ha abbandonato la civiltà perché traumatizzato da qualcosa che è avvenuto molti anni addietro e che lo ha segnato per sempre. Sta proprio in questa sovrapposizione tra la storia personale di Daniel Day-Lewis e quella del personaggio che deve interpretare la cosa più interessante di un film che, forse involontariamente, finisce per essere un film che parla di quel “method acting” tanto discusso e che già, in maniera più esplicita, era stato recentemente raccontato al cinema da Todd Haynes con May December. In quel caso l’attrice protagonista, Natalie Portman, era stata scelta proprio perché aveva sempre rifiutato, nel corso della sua carriera, quel tipo di approccio. Non è ovviamente questo il caso di Day-Lewis, noto (e spesso criticato) per il metodo con il quale cerca di immedesimarsi il più possibile con il suo personaggio, mantenendone l’accento, le abitudini, la personalità (le disabilità, vedasi il caso de Il mio piede sinistro), anche fuori dal set.
In qualche modo Anemone sembra essere consapevole dell’ineguagliabile forza espressiva di un attore del calibro di Day-Lewis, così come del pericolo che ogni sua battuta, ogni suo monologo, possa inghiottire tutto il resto e monopolizzare la scena in maniera tirannica. Il film finisce così per raccontare anche del perché l’attore abbia deciso (per ben due volte) di ritirarsi dalle scene per prendersi delle lunghe pause e del perché questo probabilmente accadrà di nuovo. Vivere nel mondo reale richiede molto al personaggio di Ray, così come lo sforzo attoriale sembra richiedere molto all’attore che lo interpreta, anche per il metodo che adotta per calarsi nei diversi ruoli e per la sua totale abnegazione verso di essi. Quando lo osserviamo, filosofeggiando dolentemente sulla morte e sulla violenza, ne percepiamo la fatica e la pena. C’è voluto il figlio, con questo suo film, a convincerlo ad uscire dal suo esilio auto-imposto per farsi nuovamente carico di questo “fardello”. Ed è proprio questa, in fondo, la trama di Anemone: c’è un ragazzo in difficoltà che spinge lo zio (Sean Bean) a far visita al fratello (quindi il vero padre del ragazzo) per convincerlo a tornare tra i “vivi” e ad abbandonare la casa nel bosco nella quale si è rifugiato per non avere più contatti con il mondo esterno ed espiare così le colpe del suo passato tormentato.
Ronan Day-Lewis dirige però il film con uno strano disinteresse verso le motivazioni che innescano il racconto, per rinchiudersi dopo poco il suo inizio all’interno di una miserabile capanna che diventa l’ideale “purgatorio” per queste due figure maschili: anime inquiete che si ritrovano faccia a faccia dopo tanto tempo, scoprendo man mano che hanno ancora molte cose da dirsi e da chiarire. Ciò che funziona di Anemone è soprattutto la straordinaria alchimia tra i due attori principali, capaci praticamente da soli di rendere credibile e commovente una relazione tra fratelli che viene restituita al pubblico senza nessun altro elemento a suo supporto che non sia la voce e il corpo di Sean Bean e Daniel Day-Lewis. La regia, infatti, rinunciando a qualsivoglia dinamismo (almeno fino a un certo punto, quando invece i due protagonisti cominceranno a camminare fianco a fianco come se fossero in un film di Gus Van Sant) sceglie di puntare sull’effetto ipnotico, sul mistero e sul non detto.
Il salto costante però tra la casa di famiglia, in cui sono rimasti mamma e figlio, e quella nella foresta, in cui si trovano i due uomini, avviene troppo spesso – e spesso inutilmente – affinché lo spettatore possa effettivamente immergersi nell’atmosfera del racconto. Ronan Day-Lewis e il direttore della fotografia Ben Fordesman lavorano efficacemente per dare ad Anemone un aspetto minaccioso, ma spesso il film assomiglia più a un videoclip musicale pensato per accompagnare la stridente colonna sonora rock nu metal composta (magistralmente) da The Haxan Cloak che a un film coerente. Enormi pesci e creature eteree ultraterrene si materializzano dall’oscurità e contribuiscono a creare uno stile visivo sorprendente, ma gli svolazzi espressionistici sono più superficialmente sconcertanti che effettivamente utili alla narrazione, che avrebbe giovato di un maggiore minimalismo.