La nuova opera di Nuri Bilge Ceylan comincia con una scena che poi non sarà più ripresa nel corso del (lunghissimo) film: il giovane Sinan rivede dopo anni una ragazza che capiamo essere una sua amica di infanzia e con la quale forse c’era qualcosa di speciale (come nei migliori film di Ceylan nessuno ce lo dice, ma lo comprendiamo dai loro sguardi). I due si baciano fra i rami e le foglie di un vecchio albero e lei lo morderà, lasciandogli un piccolo segno sul labbro inferiore. Quel segno rimarrà in ogni sequenza successiva a ricordarci ciò che Sinan ha deciso di non cogliere, di lasciare per sempre pur avendo l’occasione di prenderlo. E sarà proprio quella scoria sul viso a dirci che quel bacio è reale e non uno dei numerosi sogni del giovane ragazzo. È come se ci fosse un film possibile che però non ci è concesso guardare, uno che narra una vicenda diversa da quella che invece Ceylan sceglie di farci vedere e che origina proprio dalla soppressione di una narrazione diversa ed inconciliabile.

È una scena bellissima che da sola ci suggerisce una ricchezza di espressioni che Ceylan cerca di rendere su schermo per mezzo di una regia varia e dinamica. Ogni sguardo della macchina da presa sui due ragazzi proviene da una posizione sempre diversa e ci svela qualcosa di nuovo su di loro che prima non sapevamo. La brezza che arriva a scompigliare i capelli di lei non è scenografia ma personaggio: dopo il suo passaggio cambierà l’umore dei due, cambieranno le loro reazioni, cambierà il film.

Già dal suo capolavoro del 2011 (Bir zamanlar Anadolu’da) le opere di Ceylan non sono più silenziose e di poche parole come invece lo erano quelle degli anni di Iklimler, ma dense e piene di dialoghi. Anche nel suo nuovo film, conversazione dopo conversazione, il ragazzo accumulerà dei sensi di colpa che culmineranno in un finale che sembrerà essere la normale conseguenza degli scambi che lo precedono. Sinan spiega ad ogni persona con cui parla quelle che sono le sue idee sul mondo, ma come sempre con Ceylan le convinzioni che i personaggi espongono si modificano in base alle emozioni che provano e sembrano obbedire più a loro condizioni passeggere che a reali ideologie nelle quali credere.

Nel cinema di Nuri Bilge Ceylan è il clima a guidare le azioni dei personaggi, includendoli in un universo più grande di loro che ne influenza il modo di essere. In ogni scena, persino in quelle al chiuso, chi guarda è in grado di capire se fuori piove o c’è il sole: lo si riesce a percepire grazie al sonoro, osservando la luce che si posa o guardando i personaggi, fradici di acqua o lucidi per il sudore che gronda dalla loro faccia. Alla fine padre e figlio si convinceranno dei propri sbagli e rinunceranno alle loro sicurezze, eppure ciò non sembrerà dipendere da una percepibile evoluzione della loro relazione ma solo dall’arrivo del freddo e dell’inverno.

L’occhio di Ceylan prima si avvicina ai suoi personaggi sino ad inquadrarne le imperfezioni più piccole e poi si separa da loro, li fa sembrare minuscoli quando parlano di Dio. La regia rinuncia alla camera fissa e segue il ragazzo del film muoversi in luoghi in cui risuona ancora ciò che è successo secoli prima (le guerre, la rovina di un impero che fu) e nei quali sembra impossibile pensare a cosa sarà. Sono paesaggi che non nascondono le modificazioni che li hanno percorsi negli anni, luoghi che sembrano fermi per via dei personaggi che li popolano, che scelgono la propria prigionia e si “suicidano” ben consci di farlo. Eppure ogni cosa che li circonda sembra ribellarsi all’immobilismo: le foglie che vibrano con furia, il mare che si rigonfia e si riversa, la neve che scende piano ma senza lasciare scampo.

Se il cinema di Ceylan spesso cerca di spiegare come possa avvenire l’elaborazione di una cosa che è successa, la sua nuova opera è invece un percorso di elaborazione di ciò che non è mai successo, di qualcosa con la cui mancanza è necessario convivere. Come in un amarcord felliniano alla fine arriverà la nebbia ad avvolgere lo schermo. La giovinezza finirà e con essa il tempo che la rincorreva. Sospesi a mezz’aria, si può guardare solo in basso.