In questo decennio il cinema di Carlo Verdone è cambiato più di quanto non si voglia credere. Dopo una serie di commedie (poco comiche e molto sentimentali) trascurabili, Posti in piedi in paradiso sembrava aver inaugurato un percorso nuovo, dove gli spunti per le storie originavano dai problemi della nostra società e non dalle specifiche vicende delle sceneggiature che coinvolgevano questo o quel personaggio. Percorso che però è terminato dopo poco con Sotto una buona stella, forse uno dei suoi lavori peggiori. Ma dallo scorso L'abbiamo fatta grossa, farsa sui toni del poliziesco in coppia con Albanese, è emersa invece la volontà, confermata in questo Benedetta Follia, di usare il sociale (la miseria che spinge ad imbrogli ciarlataneschi nel primo, lo scontrarsi di classi diverse nel secondo) come sfondo di storie che mirano ad essere prima di ogni cosa ridicole ed esilaranti. Così questa sua nuova commedia, pur avendo radici nella realtà, non nasce da un tema di attualità ma da una idea comica: catapultare Verdone in una serie disastrosa di incontri romantici organizzati tramite una applicazione per cellulare.

Affidandosi a due degli sceneggiatori più capaci che il nostro cinema può oggi vantare, ovvero Guaglianone e Menotti di Lo chiamavano Jeeg Robot, Verdone sembra lasciare spazio in Benedetta Follia ad idee che forse mai prima d’ora avrebbe preso seriamente in considerazione, arrivando a sfiorare i toni di commedie sulla scia di Tutti pazzi per Mary. Quindi c’è un modo di concepire la comicità che usa il disagio del pubblico, che si trova dinanzi a scene che creano imbarazzo anche solo guardandole, per arrivare alla risata destreggiandosi in maniera funambolica sul crinale della volgarità senza mai davvero caderci (cosa che in questo caso riesce a Verdone, grazie alla bravura dei suoi sceneggiatori ed alla sua capacità espressiva, ma che invece non sempre funziona nei Farrelly).

Verdone sembra curioso di sperimentare e non è forse un caso che le scene più “inusuali” per il suo cinema siano anche quelle in cui emerge una genuina curiosità nella regia. Considerando che nella carriera verdoniana non mancano scivoloni e messinscene dozzinali, questa non è una cosa scontata, a maggior ragione nel panorama nostrano dove i comici si improvvisano spesso registi affossando commedie dalla sceneggiatura pregevole: tra qualche mese alla schiera di questi comici-registi si aggiungerà Checco Zalone, ma da anni ad esempio Ficarra e Picone dirigono i propri lavori con esiti mai all’altezza delle loro potenzialità (a L’ora legale ha collaborato lo stesso Guaglianone).

A coinvolgerlo in questa spirale di follie amorose è Ilenia Pastorelli, che non solo sfoggia tempi comici incredibili per una performer così giovane ma sembra anche in grado di salvare gli scambi meno ispirati e le scene più fiacche (che comunque non mancano). Perché al di là dei deliri psichedelici e degli orgasmi al tavolo come quelli di Harry ti presento Sally, questo ventiseiesimo lungometraggio del regista romano fa ben poco per fuggire dalla rappresentazione ormai codificata delle idiosincrasie verdoniane. Ed è forse proprio nelle sequenze in cui Benedetta Follia si adagia su situazioni già viste che emerge il fiato corto di una commedia che vive solo di gag e momenti (quando invece Verdone nei suoi lavori migliori si è sempre speso per la costruzione organica della trama, che rendeva gli sketch divertenti perchè inseriti in un particolare momento della stessa).

A 67 anni di età è anche comprensibile la natura metacinematografica di questa operazione, in cui Carlo Verdone si guarda allo specchio e vede l'Oscar Pettinari di Troppo Forte che gli ricorda delle sue vecchie ambizioni e della sua passata vitalità. Di un cinema che è oggi profondamente diverso da quello che lo ha reso famoso, per ragioni personali (l’età che avanza, una mutata sensibilità) ma anche commerciali. Perché a guardarsi allo specchio è il Verdone che da qualche anno produce con Filmauro e non più con la storica Titanus o con Cecchi Gori. Queste nuove condizioni, esterne ed interne, stanno portando pian piano (salvo una nuova sterzata) ad un cambiamento radicale nel cinema verdoniano, ma in Benedetta follia sembra mancare la consapevolezza necessaria a rendere questo cambiamento reale e visibile.