Disaster movie, musical e coming-of-age. Tre generi squisitamente “americani” che Mike Flanagan, fedelissimo al racconto originale, riduce alla loro quintessenza, alla loro elementare componente umana, in questo suo nuovo adattamento da Stephen King, consegnando al pubblico tre film in uno, che corrispondono a tre momenti nella vita di un uomo qualunque - tale Chuck, appunto - raccontati andando a ritroso nel tempo: dalla fine (del mondo) all’inizio, in un capolavoro vertiginoso che si contrae progressivamente, dall’infinità del cosmo a una vecchia e angusta soffitta, dotato di un’intelligenza e di una profondità emotiva tanto più sorprendenti quanto più minimale e limpida è la messa in scena. Come nella citatissima (anche nel film) poesia di Walt Whitman, il protagonista - come il narratore di Song of Myself - non può, per definizione, essere solo, perché contiene in sé la moltitudine del mondo (e del cinema). Non esiste alcun confine tra sé e l’altro, dal momento che la sua vita è radicata nella forza incessantemente creativa dell’essere e dell’esistere, nel fluire di qualcosa che emerge dal nulla, nella continua trasformazione di energia, materia e linguaggio. La singolarità del sé è quindi costantemente messa in discussione: condizione che può sembrare allo stesso tempo una diminuzione o un potenziamento, una fonte di disperazione o di gioia. Ma che ha a che vedere anche con l’esperienza stessa del cinema: ogni spettatore contiene in sé tutti i personaggi del film che si trova davanti e, nel buio della sala, quando ancora possibile, ritrova il piacere di essere da solo nella “living crowd”.

Se lo spazio della narrazione va restringendosi, dal “tutto” all’ambiente domestico, il film invece passa dalla radicale rarefazione iniziale, quella di un’apocalisse in cui ogni cosa progressivamente si affievolisce e svanisce, che assomiglia molto a uno degli scenari mentali di Charlie Kaufman, a una progressiva “narrativizzazione” che ci spiega chi è il protagonista - che conosciamo all’inizio sottoforma di meme - e da dove viene, fino a una chiusura fantasmatica che rimette paradossalmente in linea anche quest’opera così atipica con i misteri e le ossessioni che Flanagan ha indagato da The Haunting of Hill House in avanti. Le coordinate di questa mappa emotiva e sentimentale vengono svelate man mano, accompagnando lo spettatore da un’inevitabile spaesamento preliminare alla comprensione (comunque parziale) di ciò che viene raccontato. È un film sorprendente, The Life of Chuck, in cui non c’è una singola scena che non lo sintetizzi tutto (per questo “tascabile”, da aprire a casaccio e leggere come meglio si crede), come quella - già cult - dello sfrenato ballo di Tom Hiddleston in giacca e cravatta per le strade di Boston. “Vedo l’America danzare”, scriveva Isadora Duncan, la famosa bohémien che proprio quelle poesie di Whitman aveva “danzato”, per così dire, trovando in esse il palpito del suo essere libera e del suo nervosismo. “I am indeed the spiritual daughter of Walt Whitman”, affermava. E per i “figli d’America” avrebbe creato una nuova danza capace di esprimere la vitalità e le inquietudini di quell’immenso continente e della sua fragile democrazia. The Life of Chuck mette in scena quell’America che danza, ponendo nuovamente al centro la dignità e la complessità umana, ribadendo in maniera commovente un principio oggi spesso dimenticato: che ogni vita che si spegne è sempre una catastrofe - anche - collettiva. Perché inevitabilmente noi conteniamo molto più che noi stessi ed è per questo che dovremmo sentire ancora più intensamente le sofferenze (e le gioie) degli altri esseri umani. Non è forse questa la più grande lezione per una democrazia in difficoltà come quella americana?
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