Fin dal rivoluzionario Black Comedy, risalente al 1987, Atom Egoyan ha esplorato con il suo cinema le svariate possibilità offerte dalle diverse tecnologie di comunicazione, giocando con gli schermi dentro ad altri schermi, con storie dentro ad altre storie e con i modi in cui più racconti possono dialogare tra loro e con la vita reale. In questo suo nuovo Seven Veils c’è una giovane regista di nome Jeanine (Amanda Seyfried) a cui è stato chiesto di rimettere in scena una produzione della Salomè di Strauss che era stata originariamente diretta dal suo ex mentore (che, come si apprende subito, era anche il suo amante molto più anziano). Mentre i sette veli metaforicamente cadono lentamente, in una danza rapsodica tra dispositivi registici differenti, apprendiamo anche che la storia della sua infanzia ha alcuni inquietanti parallelismi con quella di Salomè.
Al di sotto di tutto questo c’è un ulteriore strato, questa volta di realtà: si tratta di una vera e propria produzione di Salomè che Atom Egoyan ha curato per la Canadian Opera Company nel 1996 e che, da allora, è stata riproposta numerose volte, culminando in un revival del 2023, le cui immagini si compenetrano con quelle del film, moltiplicando i punti di vista. I filmati di backstage di quella produzione, ripresi dallo stesso Egoyan con il cellulare, si inseriscono nella storia in maniera differente a seconda del contesto, svolgendo contemporaneamente la funzione di documento e di presa diretta. La contaminazione tra l’esperienza teatrale e quella cinematografica si estende ovviamente anche al cast di attori che Jeanine si trova a dirigere (molti dei quali sono gli stessi della produzione canadese), trasferendo così sulla protagonista le stesse preoccupazioni che Egoyan ha dovuto affrontare quando si è trovato a dover riadattare un classico, tentando di infondere in esso il suo stile senza snaturare il testo originale e di “aggiornare” il più possibile quest’ultimo al contesto sociale contemporaneo, rispondendo magari alle questioni che la società chiede oggi all’arte di rispondere.
È quello che fa anche Amanda Seyfried, nei panni di una donna a cui viene continuamente fatta pesare la sua passata relazione con il regista e l’assenza di “titoli” per fare quello che sta facendo, che si ritrova a dover lavorare su di un’opera “sacra”, messa in scena da un uomo influente, muovendosi tra le strettissime possibilità che le vengono concesse per evitare che il suo remake venga accusato di “lesa maestà” o - ancora peggio - di propaganda woke, nel voler de-sessualizzare il più possibile Salomè dall’idea di “stripper da night club” sedimentata negli spettatori e alimentata dagli uomini che su quel testo avevano messo mano. Tutte idee giustissime e potenzialmente deflagranti, che però non sono mai accompagnate dalla giusta voglia di esplorare seriamente quei temi, che invece finiscono per passare in secondo piano in una sceneggiatura dall’asfissiante cinismo, in cui non esistono buoni propositi e in cui nessuno agisce in buona fede. Ogni sacrosanta rivendicazione di giustizia viene contrappesata da deprecabili intenzioni, come se fosse impossibile per i personaggi agire al di fuori delle predefinite logiche della “morality play”, incapaci di veri sentimenti ma solo mossi da calcoli e strategie più o meno complicate da mettere in atto per soddisfare le proprie ambizioni.
La cosa più affascinante, alla fine, rimane però la presenza simultanea e caleidoscopica di strumenti di ripresa differenti, che rendono Seven Veils un’opera visivamente variegata, che gioca intelligentemente con la differente qualità delle immagini, con la loro differente nitidezza, con il loro differente formato (verticale, orizzontale) e con il loro differente mezzo di diffusione (social, tv, cinema). Tutti fattori che influenzano la trama di questo thriller in cui ogni strategia di manipolazione e inganno deve sempre tenere conto della possibilità delle immagini di rivelare il falso e di svelare la verità che si vuole nascondere. Il piano davvero efficace è quello che le immagini non riescono a rivelare prima del tempo. E così il thriller che funziona è quello che usa le immagini a proprio favore per confondere le acque.
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