Il personaggio di Wallace Shawn si scolorisce progressivamente nel nuovo film di Woody Allen tutte le volte che sta per immergersi in una delle tante sequenze onirico-cinematografiche in bianco e nero (che nella filmografia alleniana non compariva dai tempi di Celebrity, nel 1998) di Rifkin’s Festival: sogni ad occhi spalancati (e chiusi) che sono scherzosi omaggi ai suoi idoli (Truffaut, Fellini, Bergman, Buñuel). Prima di ogni divagazione, la luce calda e avvolgente di Vittorio Storaro si fa sempre più fredda e il viso del povero Rifkin sempre più grigio. Di quel grigio che per Storaro è il “giusto punto fermo”, la giusta stasi, la giusta pausa di riflessione: cioè quel colore che rappresenta un equilibrio temporaneo tra il nero e il bianco e che nello stesso tempo non è mai acqua ferma, un non coinvolgimento, una non passione (“il grigio è appunto una riflessione, un momento di pausa per capire meglio da dove veniamo, chi siamo, dove andremo”).
Il protagonista utilizza i film di un ipotetico festival mentale (che si svolge in contemporanea con quello, vero, di San Sebastián) per riflettere su ciò che accade attorno a lui: una finzione cinematografica che lo separa, almeno momentaneamente, da una esistenza altrettanto fittizia (ed è la fotografia di Storaro, che aggiunge tramonto a tramonto, a renderla tale). Nei pochissimi secondi in cui la luce sembra illuminare le cose per ciò che realmente sono, quindi nei momenti di transizione tra il colore e il bianco/nero, in cui la luce sospende brevemente la sua attività di “scrittura”, si rimane inermi e imbambolati, indifesi davanti a ciò che si è saputo affrontare solo attraverso la finzione. Così, nelle sua grigie riflessioni, si manifesta l’inadeguatezza di un procacciatore di amenità, di trite barzellette, mestierante di seconda fila promosso ad intellettuale per la sua capacità di essere al posto giusto nel momento giusto (per usare le parole che Allen dedica a se stesso nella sua biografia).
A cosa serve il successo se la tua aspirazione è creare opere che possano affiancarsi a quelle di Eschilo, O’Neill, Strindberg, Tennessee Williams? Se il tuo primo tentativo drammatico è influenzato da Bergman e se il tuo sogno è quello di realizzare Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, invece che “arrabattarsi” con Il dormiglione, Amore e guerra, Io e Annie? Sono domande che Allen si pone nel suo libro e che si pone il personaggio di Wallace Shawn, schiacciato da un romanzo che, ancora prima di andare in stampa, sconta già la debolezza di non poter essere collocato sugli scaffali delle librerie accanto ai classici della letteratura russa di Dostoevskij e Tolstoj.
Se ne sono andati tutti: Resnais, Antonioni, De Sica, Kazan (“da vero bastian contrario, è ancora vivo Godard”). Il mondo è cambiato e tutti i registi su cui voleva fare colpo Woody Allen quando era giovane sono svaniti nel nulla che pare aspetti tutti noi. Così non rimane che crogiolarsi nel Weltschmerz. E proprio nel Weltschmerz, nel dolore cosmico (ma, come sempre accade con Allen, il cosmo è micro, autoreferenziale e mai universale), è immerso il suo nuovo film, alimentato e allo stesso tempo consumato dalla sofferenza che si prova nel constatare che il mondo continua a deludere le proprie aspettative: “Ho solo un mese di vita, ed è febbraio”.
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