“Werner è l’unica persona con la quale potessi avere una conversazione da pari a pari su quello che chiamerei l’aspetto sacrale del camminare. Lui e io abbiamo in comune la convinzione che camminare non sia semplicemente terapeutico per l’individuo, ma un’attività poetica che può guarire il mondo dei suoi mali”. Così Bruce Chatwin nel libro Che ci faccio qui? definiva l’amico cineasta Werner Herzog, il quale, a distanza di trent’anni dalla morte dello scrittore, esploratore e archeologo nomade, dedica all’amicizia che li legava un documentario commovente. Un documentario in grado allo stesso tempo di rispondere alla domanda posta ne Le vie dei canti (“perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”) e di tracciare le coordinate del cinema di Herzog stesso, da Segni di vita (1969) a Lo and Behold (2016), che viene subito in mente nel momento in cui di Chatwin si dice che “era Internet prima di Internet, capace di trovare le connessioni più segrete tra Paesi, popoli, culture”.
Chatwin voleva affidare ad Herzog il racconto cinematografico delle sue avventure nella Repubblica Popolare del Benin (quando l’esploratore ci mise piede per la prima volta era noto con il nome di Dahomey). Lì era stato arrestato come mercenario, costretto a spogliarsi e a stare contro un muro, in piedi e in mutande, sotto un sole cocente, mentre gli avvoltoi incrociavano sopra la sua testa e la folla fuori dalla caserma scandiva in coro: “Mort aux mercenaires!”. Ma l’idea del film rimase tale per lungo tempo. Il romanzo, Il viceré dì Ouidah, venne invece pubblicato nel 1980, tra le perplessità dei recensori, alcuni dei quali trovarono insopportabili le scene di crudeltà e la prosa barocca del libro. Circa tre anni dopo Chatwin stava viaggiando nell’outback australiano, quando un giorno, di ritorno al motel di Alice Springs, trovò un biglietto col quale lo si avvertiva che Herzog lo aveva cercato. Qualcuno gli aveva fatto leggere uno dei suoi libri mentre girava Fitzcarraldo in Amazzonia. Voleva che lo scrittore collaborasse alla sceneggiatura di un nuovo film sugli aborigeni: Dove sognano le formiche verdi. Lo aspettò all’aeroporto di Melbourne: ascetico, con un paio di logori pantaloni militari e una maglietta che lasciava intravedere il teschio ridente tatuato sulla spalla.
È in quell’occasione che Chatwin gli regalò una copia del Viceré, ancora convinto che il suo sogno di vedere quella storia sul grande schermo potesse concretizzarsi. Herzog gli promise che un giorno ne avrebbero fatto un film insieme, ma il progetto partì solo quando il regista scoprì che David Bowie stava per acquistarne i diritti cinematografici. Fece di tutto per scongiurarlo, mise in moto la macchina della produzione, allestì un set faraonico in Ghana, chiamò Klaus Kinski, il suo “più fidato nemico”, migliaia di comparse, tra cui una vera corte reale e centinaia di amazzoni africane allenate dallo stunt director Benito Stefanelli, per dare vita ad una delle sue celebri imprese prometeiche: Cobra verde (1987).
Nel suo documentario dedicato all’amico, Herzog sembra mettere in mostra tutte quelle contraddizioni che Chatwin vedeva in lui: “tremendamente coriaceo ma vulnerabile, affettuoso e distaccato, austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidiana ma quanto mai efficiente nelle situazioni d’emergenza”. Così Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin analizza il legame tra due persone che, anche attraverso linguaggi diversi, hanno utilizzato la finzione come mezzo per raccontare la verità (è il biografo Nicholas Shakespeare a dire che Chatwin non “diceva mezze verità, ma diceva una verità e mezza”, cioè inventava storie che sembravano più reali della realtà). Anche durante la realizzazione di Cobra Verde, Herzog non resistette al vecchio tocco wagneriano e nella sceneggiatura cambiò i nomi di due ragazze brasiliane in Walkyria e Wandeleide. Quando Chatwin gli fece notare che la musica di Wagner non sarebbe potuta arrivare in Brasile nei primi anni dell’Ottocento, il regista scoppiò a ridergli in faccia.
D’altronde Herzog ha sempre sostenuto, con il consenso di Chatwin, che “camminare è una virtù, mentre il turismo un peccato mortale”. Di questa filosofia è testimonianza tangibile il pellegrinaggio invernale che il regista intraprese per andare a trovare Lotte Eisner, la critica cinematografica e poetessa considerata per tanti anni lo spirito guida del nuovo cinema tedesco, elargendo ai giovani cineasti la sua immensa esperienza e contribuendo, da ebrea, a ristabilire la continuità con una grande tradizione cinematografica che era finita a pezzi con l’avvento di Hitler. Emigrata a Parigi all’inizio degli anni Trenta, aveva contribuito alla fondazione della Cinémathèque. Quando vide per la prima volta l’opera di esordio di Herzog, la scrittrice informò Fritz Lang (di cui era stata assistente): “Ho visto il lavoro di un giovane tedesco, un talento eccezionale”. Impossibile, rispose Lang. Herzog divenne così il pupillo della Eisner. E nel 1974, quando seppe che lei era in fin di vita, si mise in marcia, in mezzo al ghiaccio e alla neve, da Monaco a Parigi, convinto che in qualche modo, a forza di camminare, sarebbe riuscito a farla guarire. Quando arrivò a destinazione, Lotte Eisner si era ristabilita. E tirò avanti per altri dieci anni.
Solvitur ambulando. Camminando si risolve.
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