Try, die, repeat. È la condanna del cinema contemporaneo hollywoodiano, specialmente nella sua declinazione fantascientifica, storicamente quella più capace di leggere il presente e immaginare il futuro e che invece oggi fatica nello stare al passo con la realtà, nel creare fantasie che sopravvivano all’attualità e che ci dicano effettivamente qualcosa di nuovo sul mondo e sulla società in cui viviamo. Questo Mickey 17 sembra costellato di rimandi anche fin troppo didascalici ad avvenimenti reali avvenuti però solo dopo la sua realizzazione, testimoniando, anche involontariamente, l’impossibilità di inventare qualcosa che non sia tristemente già accaduto o che non accadrà da lì a poco. Bong Joon-ho rimastica continuamente modelli cinematografici passati, storie già raccontate, film già visti, con la stessa velocità della macchina che stampa regolarmente il corpo del suo protagonista, anch’esso, in chiave metacinematografica, figurazione dell’attore come operaio sotto il capitalismo, a ogni nuova reiterazione sempre più cinico, disilluso, violento (l’avanzata delle destre nel mondo forse ci dice qualcosa?). Invenzione della borghesia moderna, il cinema è d’altronde l’unica delle arti la cui genesi si svolge in contemporanea a quella del capitalismo. Ed è probabilmente anche quella che, lungo tutto il XX secolo, ha intrattenuto il rapporto più complesso, stimolante e, in definitiva, più fruttuoso – dal punto di vista concettuale – con la teoria marxista. 

La macchina hollywoodiana che esige infiniti reshoots, test-screening, in una logica anch’essa di “trial and error”, ha imposto il suo schema allo stesso regista coreano, che in un sussulto di dignità ha invece tenuto il punto sulla sua “director’s cut”, quindi sulla scelta di decidere il montaggio finale della versione che vediamo in sala, nonostante l’opinione contraria dello studio (Warner), che ne aveva già preparato un’altra, alternativa. Un ironico, ma assolutamente coerente, contrappasso per un film che racconta esattamente questo: gli schizofrenici tentativi sempre più spesso fallimentari di una macchina dello spettacolo priva di idee, che non può fare altro che procedere a tentoni, creando copie dello stesso film, con leggere variazioni sul tema. Gli spettatori, anch’essi, si recano in sala sempre meno e sempre più disorientati. Sembra quasi di tornare ad Adorno quando scriveva: «Da ogni spettacolo cinematografico mi accorgo di tornare, per quanto mi sorvegli, più stupido e più cattivo». Ecco, il cinema di Bong Joon-ho evita proprio questo, di renderci più stupidi e più cattivi. Prosegue ostinatamente la propria poetica antispecista, da The Host a Okja, rifugge dal cinismo da quattro soldi e, fatte proprie tutte le desolanti considerazioni del caso, applica l’unica vera divergenza che la finzione può concedersi oggi sulla realtà: ovvero quella del lieto fine.