Questo nuovo film di Quentin Dupieux è esattamente l’altra faccia della medaglia del precedente Yannick. Se in quel caso la messa in discussione dei meccanismi cinematografici e narrativi arrivava dal pubblico, che con fare violento finiva per imporre il proprio gusto sugli “autori”, qui ciò che inceppa la macchina-cinema è un granello di sabbia già minuziosamente inserito da Dupieux negli ingranaggi del proprio marchingegno filmico, che provoca un progressivo deragliamento davanti al quale lo spettatore si trova inerme. Non è più il pubblico a interrogare il film, ma il contrario. Come spesso accade con il cinema del geniale regista francese, specialmente quando ci si avventura nel campo del metalinguismo, ci si chiede quanto ci sia di consapevole e quanto invece venga semplicemente utilizzato per il gusto della gag, del coltissimo divertissement cinefilo. Questo estremo gesto di giocoleria registica fa infatti roteare per aria diverse questioni spinose che riguardano il cinema di oggi: l’intelligenza artificiale, i contratti di lavoro (specialmente di chi sta nelle seconde e terze linee), la parità di genere, l’ipocrisia davanti alla vera o presunta “cancel culture”. Temi enormi che rimangono indietro mentre il film procede con un incedere incessante e con ritmo perfetto, come a voler dire che non c’è tempo per troppe elucubrazioni se si vuole centrare il risultato della godibilità. Ma è anche vero che questo cinema autoriflessivo, oggi sempre più in voga, rischia però di escludere il pubblico, di tenerlo fuori da discussioni che non lo appassionano, che non riesce a comprendere e che non è interessato a seguire (esattamente come lo spettatore indispettito di Yannick, estraneo a qualsiasi dibattito culturale). Il cinema d’autore fatto per se stessi e nessun altro (forse per una piccola nicchia di splendidi cinefili, come sottolinea il personaggio di Garrel) è un cinema che ha già rinunciato alla propria umanità, ancora prima che arrivi la temuta vittoria degli algoritmi e delle intelligenze artificiali (e infatti è già cinema da piattaforma streaming, come lo stesso Le Deuxième Acte, ironicamente coprodotto da Netflix). Potremmo ipotizzare, quindi, un Dupieux quasi autoparodico, che rinuncia nella prima metà del film persino al suo ruolo da regista, subappaltato ad altre entità (che non sveliamo per non rovinare il gusto della sorpresa), per poi ricomparire solo successivamente - nel deuxième acte, appunto - fino a normalizzare la sua comicità surreale, concedendo una tridimensionalità a protagonisti altrimenti ridotti a pedine.

Le Deuxième Acte, il secondo atto, è quello che comincia dopo la finzione, nella realtà, nella società che viviamo, che inevitabilmente subisce le conseguenze di ciò che produciamo come immaginario filmico. Secondo questo ragionamento, è tanto velleitaria la “filosofia rivoluzionaria” esposta da Louis Garrel, che pretende di ribaltare la gerarchia tra ciò che riteniamo finto e ciò che riteniamo reale, sia quella materialista di Léa Seydoux, per cui la realtà resta sempre tale e non subisce le influenze di ciò che inventiamo, raccontiamo, utilizziamo come mezzo di svago e di evasione. Il cinema, è chiaro, non è altro che un processo di manipolazione, in cui persino una camminata non è davvero una camminata («ceci n’est pas une pipe», d’altronde) ma un “rig”, una rotaia nel mezzo del nulla su cui viene montata la macchina da presa con il compito di ricreare fittiziamente quel gesto seguendo gli attori. Eppure anche il profilmico, da solo, nel momento in cui viene svelato allo spettatore, non può essere considerato semplicemente per ciò che è (una strumentazione meccanica, un binario) ma viene valutato sempre e comunque in relazione a quello che produce. Realtà e finzione sono separate per comodità di analisi, ma vivono in una relazione di reciprocità, così come il pubblico con gli attori e i registi. E la separazione dei due piani è destinata a diventare sempre più inutile con l’avvento delle A.I.

A quel punto, non avrà più senso parlare di autori e spettatori, ma solo di umani contro le macchine, come nei vecchi film di fantascienza anni Cinquanta. Se i registi dovessero finire per essere effettivamente sostituiti dai computer, che cosa ci troveremmo davanti? Niente di molto diverso da quello che (colpevolmente) produciamo e vediamo oggi, sembra suggerire Dupieux. Ma se questo sia effettivamente il punto del film non lo sapremo forse mai, perché da tempo l’ex Mr. Oizo è diventato l’algoritmo del proprio cinema: prolifico, infallibile, programmato per non dover rispondere a nessuna domanda o dubbio proveniente da fuori.